Scarsa natalità, fuga dei cervelli, lavoratori che non si trovano e migranti attirati da altri Paesi. Tutti fenomeni che hanno un filo conduttore: gli stipendi in Italia sono troppo bassi. Ed è colpa anche della visione miope degli imprenditori più attenti a contenere i costi che a cercare di innovare.
Come in una di quelle avvincenti spy-story di Frederick Forsyth, alcuni fenomeni che riguardano la nostra economia e la nostra società, apparentemente slegati l’uno dall’altro, sono in realtà uniti da un filo rosso, da un elemento comune che solo sul finale si rivela nella sua chiarezza. Prima scena: la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Elvira Calderone parla al Forum della Confcommercio e dichiara: «Oggi probabilmente abbiamo un milione di posti di lavoro che non riusciamo a coprire mentre abbiamo tante persone che sono fuori dal circuito lavorativo e quindi dall’impegno attivo nel mondo del lavoro». Nel frattempo non si ferma la fuga dal nostro Paese: negli ultimi 10 anni sarebbero partiti circa 580 mila italiani che si sono trasferiti soprattutto nel Regno Unito, in Germania, Francia e Svizzera. Circa uno su quattro ha la laurea, il resto sono lavoratori con un livello di formazione più basso. Seconda inquadratura, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti studia un piano per favorire la natalità in Italia, dopo che l’Istat ha certificato il record storico negativo delle nascite.
Terza scena: nella sede del Financial Times in Friday Street a Londra, la giornalista specializzata nel mondo del lavoro Sarah O’Connor sta realizzando un articolo sui migranti: «Quando la parola “migrante” fa notizia» scrive «spesso è accompagnata dalla parola “crisi”. Ma è in corso anche un’altra storia sulla migrazione, in cui i Paesi sono sempre più in competizione tra loro per attirare sulle loro coste lavoratori qualificati. C’è sempre stata una competizione globale per attirare i migliori scienziati, ingegneri informatici e imprenditori, ma ora le nazioni cercano di attrarre una gamma molto più ampia di migranti con competenze diverse, dalla produzione all’assistenza e all’edilizia».
Ora l’obiettivo inquadra la sede della Commissione europea, da dove parte una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia e di altri nove Paesi per non aver pienamente recepito la direttiva comunitaria sui lavoratori stagionali, «volta ad assicurare condizioni di vita e di lavoro dignitose». L’Ue ci ha criticato anche per le condizioni di lavoro discriminatorie nel settore pubblico e l’abuso dei contratti a tempo determinato.
Bassa natalità, fuga dei cervelli, immigrazione, mancanza di lavoratori: che cosa lega questi eventi? Qual è il fattore comune? La risposta è abbastanza semplice: gli stipendi insoddisfacenti pagati agli italiani. A cui va aggiunto il lavoro precario. Come può una giovane donna mettersi a fare figli se guadagna poco o se non ha un contratto a tempo indeterminato? Come possiamo pretendere che un neolaureato resti in Italia quando lo stipendio medio netto a Milano viaggia sotto i 2 mila euro al mese contro i 2.833 di Berlino (dove il costo della vita è più basso), i 3.723 di Francoforte o i 4.019 di Londra? Come possiamo attirare non solo gli italiani ma anche i migranti nei nostri cantieri o nei nostri campi se non siamo in grado di assicurare «condizioni di vita e di lavoro dignitose» e se il messaggio lanciato da alcuni politici trasmette l’immagine di un’Italia ostile all’immigrazione?
Come può essere attraente un Paese dove circa l’11,8 per cento dei lavoratori è considerato povero, il dato più negativo tra gli Stati europei? Come possiamo realizzare il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, se i Comuni non riescono a pagare abbastanza ingegneri e architetti? Come può l’Italia formare cittadini e lavoratori preparati se i nostri insegnanti hanno stipendi molto più bassi rispetto agli altri partner europei? La loro paga base si aggira sui 1.400 euro netti mensili, la metà di quanto riconosciuto ai colleghi tedeschi. Del resto l’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse in cui, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9 per cento), mentre in Germania è cresciuto del 33,7 e in Francia del 31,1 per cento. E anche negli ultimi anni la situazione non è cambiata, anzi: l’Osservatorio sulla dinamica retributiva realizzato dalla società di consulenza Wtw mostra che nel 2022 l’incremento medio della retribuzione fissa in Italia è stato del 3 per cento, ma con un’inflazione al 7 per cento il salario reale dei lavoratori dipendenti è addirittura diminuito del 4 per cento.
Che le retribuzioni degli italiani siano inferiori di quelle medie europee è noto. Come non è una novità che siano ferme da anni. E sono altrettanto conosciute le spiegazioni che giustificherebbero il basso livello dei nostri stipendi: la produttività che non cresce, la peculiarità di un sistema economico formato in prevalenza da aziende medie e piccole, il freno alla spesa pubblica, il declino dei sindacati, l’eccessiva differenza tra costo del lavoro e stipendio netto, cioè il famoso cuneo fiscale. Proprio su quest’ultimo punto è intervenuto il governo Meloni con un ulteriore taglio del carico fiscale e previdenziale che grava sulle retribuzioni più basse. La Confindustria infatti continua a ripetere che i dipendenti potrebbero incassare di più se il costo del lavoro fosse alleggerito dai pesi fiscali e contributivi, più alti rispetto alle medie europee (anche perché in Italia sono proprio i redditi da lavoro a versare più tasse).
Ma fermiamoci un attimo e proviamo a guardare alle retribuzioni da una prospettiva diversa. E cioè, invece di puntare il dito contro il cuneo fiscale o la scarsa produttività dei lavoratori, non potremmo semplicemente chiedere alle aziende di pagare di più i dipendenti? Non potrebbero gli imprenditori discutere nei loro convegni su come rendere più soddisfatti operai e impiegati invece di continuare a battere cassa allo Stato? L’Osservatorio JobPricing nel 2022 ha interrogato circa 1.600 lavoratori dipendenti e il loro indice di soddisfazione nei confronti del pacchetto retributivo è sceso ai livelli tra i più bassi di sempre: 3,8 su 10. Non solo. Negli ultimi anni, avverte l’Associazione dei direttori del personale, il fenomeno delle dimissioni è cresciuto sensibilmente, con un balzo del 22 per cento nel 2022. I nostri imprenditori vantano le prodezze del Made in Italy, parlano dell’alta qualità delle nostre produzioni, sottolineano i successi sui mercati internazionali del nostro design e della nostra moda. Però si lamentano del costo del lavoro: ma nella nostra industria è pari 29,5 euro all’ora (dati Eurostat), inferiore rispetto alla media europea (30,7 euro) mentre in Francia è ben più alto, 43,5 euro.
Se la produttività degli italiani è bassa è anche colpa dei datori di lavoro: uno studio dell’Inapp, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, sostiene che le caratteristiche degli imprenditori sono di fondamentale importanza per l’adozione di tecnologie innovative e per i possibili aumenti di produttività che ne deriverebbero. In particolare, imprenditori più giovani, più istruiti e di genere femminile sono più sensibili all’evoluzione della frontiera tecnologica. Le aziende a conduzione familiare il cui leader è un membro della famiglia sono meno inclini ad adottare innovazioni. E la produttività salirebbe se i dipendenti fossero pagati meglio. Ne è convinto Michele Raitano, professore di Politica economica alla Sapienza: «C’è un ampia letteratura che mostra come tenere bassi i salari disincentiva le imprese a spostarsi verso attività più avanzate e innovative. Risparmiare sul costo del lavoro è una visione miope, condanna un sistema economico verso la bassa produttività. Aumentare le retribuzioni spinge le aziende a essere più produttive». Alle obiezioni di chi dice che un incremento degli stipendi metterebbe fuori mercato le imprese, Raitano replica che «non conta il costo del lavoro in sé, ma quello per unità di prodotto: se con lavoratori meglio pagati sono più produttivo non vengo messo fuori mercato». Paesi come la Francia o la Germania hanno costi del lavoro più alti dei nostri ma sono competitivi lo stesso.
Infine, se si vuole aumentare la natalità e impiegare più italiani e stranieri, bisognerebbe intervenire anche sulla stabilità del posto di lavoro: in Italia si sono moltiplicate forme di precariato e contratti a tempo determinato, spesso con paghe più basse. Un fenomeno che la Spagna cerca di contrastare favorendo l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato e limitando le forme contrattuali di precariato. Con un certo successo: oggi 12,8 milioni di lavoratori spagnoli hanno un contratto stabile, un dato record. Posti più stabili, retribuzioni più alte. Due obiettivi difficili da raggiungere ma che aiuterebbero l’economia italiana a crescere più velocemente e di conseguenza contribuirebbero a risanare i conti pubblici. L’alternativa è il progressivo declino che ormai viviamo da anni.
