I bombardamenti che devastano l’Ucraina minacciano anche il piano che doveva aiutare l’Italia a uscire dalla crisi post-Covid. Tra progetti fermi, burocrazia soffocante e «addetti ai lavori» non pervenuti si fatica a mettere in pratica le promesse fatte all’Unione europea. Che, comunque, continua a erogare soldi al nostro Paese.
Giovanotti ben vestiti procedono lesti verso un radioso futuro. Infanti felici si trastullano con i fiorellini. Pale eoliche mulinano nel blu dipinto di blu. A dispetto dell’indigeribile acronimo, Pnrr, prosegue fulgida la narrazione governativa del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Eppure, quelle sfavillanti immagini pubblicitarie andrebbero ora ritoccate con un mesto bianco e nero. Centonovantuno miliardi virgola cinque. Mai visti tanti soldi. Tutti assieme. Dovrebbero servire a far risalire l’Italia dal precipizio della pandemia. L’Unione europea, stavolta, non ha badato a spese. Chiedendo in cambio poca cosa: l’avvio di quelle eterne riforme di cui si vagheggia da decenni.
La battaglia contro il virus è stata più cruenta di un conflitto bellico. Adesso, però, è arrivata la guerra. Quella vera. Ha il volto ellittico e gli occhi gelidi dello zar russo, Vladimir Putin. I bombardamenti distruggono l’Ucraina, minacciano gli europei, annichiliscono la speranza. Così, anche il più generoso programma di aiuti mai visto andrebbe riscritto. Con una nuova crisi economica, esacerbata da inflazione e paura, le già velleitarie mire del Recovery fund diventano antistoriche. A ritardi e inefficienze si aggiunge ora l’atroce contingenza bellica.
L’ottimismo della vigilia soppiantato dall’imponderabile futuro. Intanto, lo spettacolo va avanti. La Commissione europea, lo scorso 28 febbraio, ha dato il via libera alla prima maxirata: 21 miliardi di euro, 10 di trasferimenti e 11 di prestiti. Bruxelles, com’era scontato, certifica il raggiungimento dei 51 obiettivi previsti per l’Italia nel 2021. «Ha intrapreso importanti riforme nella pubblica amministrazione, negli appalti pubblici, nella giustizia civile e penale e nella digitalizzazione delle imprese» giura Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea.
Potenza di SuperMario. Solo l’ex presidente della Bce poteva convincerli che stavolta, perdindirindina, avremmo fatto sul serio. L’allure di Draghi, nelle messianiche vesti di premier italiano, rimane la garanzia. Almeno, di buona volontà. Perché «le importanti riforme» certificate dall’indulgente presidentessa sono tutt’altro che leggendarie. Giustizia, appalti, burocrazia: titoloni a parte, poco o nulla è cambiato.
Bruxelles però s’accontenta. Come si prepara a fare all’avvicinarsi dei prossimi obiettivi: 45 per l’esattezza, da raggiungere entro il 30 giugno. A quel punto, saranno erogati ulteriori 24,1 miliardi. Nonostante ritardi e inciampi. Esemplificati dal ministero delle Infrastrutture, guidato da Enrico Giovannini. Sessantatré miliardi e un compito titanico: rendere più moderni ed efficienti i nostri trasporti. Nonostante le reiterate assicurazioni del ciarliero professorone, molte opere rimangono ostaggio di lentezze e bizantinismi. E con l’aumento dei prezzi delle materie prime, aggravato dalla guerra, diversi cantieri potrebbero bloccarsi. A proposito di burocrazia.
Al dicastero della Pubblica amministrazione regna invece l’implacabile Renato Brunetta, già nemico pubblico del fannullonismo. Da settimane preconizza una nuova era. Intanto, non si riescono ad arruolare nemmeno i 500 valorosi che dovranno monitorare l’attuazione del piano: lavoro precario e malpagato, lamentano gli interessati. Così, pure il luccicante spottone per promuovere l’epocale concorso diventa un’inarrivabile burletta.
Bisognerebbe assumere tecnici ed esperti anche nei Comuni e nelle Regioni. Che però si scagliano proprio contro il ministero. In Sicilia, per esempio, dove sono in ballo 20 miliardi, 1.200 investimenti sarebbero bloccati. L’assessore all’Economia, Gaetano Armao, avverte: «A queste condizioni, non riusciremo a spendere i soldi». Così, si fanno sotto gli alacri lombardi. «Se qualcuno non è in grado di realizzare le opere, si ricordi che noi siamo pronti» dice Attilio Fontana. Il governatore è stato protagonista di un eloquente e involontario fuori onda con Giuseppe Sala: «Il Pnrr è un casino…» si dispera. E il sindaco di Milano replica: «Dobbiamo farci un po’ più furbi su questa cosa e fare più sistema tra tutti». E poi, lamenta, si parla solo di «Sud, Sud, Sud…».
Già, risollevare il Mezzogiorno resta lo scopo prioritario del Pnrr: avrà il 40 per cento dei fondi. Ma il dubbio, vista la pregressa gestione fallimentare dei fondi europei, è diventato assillo: riusciranno a spenderli? Prendi la sanità, presidiata dal superbo Roberto Speranza, ex assessore all’Urbanistica di Potenza: previsti investimenti per circa 20 miliardi, specie nell’assistenza territoriale. Ma le Regioni, meridionali in testa, scrivono al ministero: sono preoccupate per «la concreta realizzabilità degli interventi» e «la piena rendicontabilità delle spese».
Incombe poi l’allerta della Corte dei conti. Il presidente, Guido Carlino, chiede di «alzare la guardia» contro l’ingigantito pericolo di frodi. Li hanno rinominati «furbetti del Pnrr». Sono già all’opera, senza sosta. Tanto che, dalla Calabria al Veneto, vengono annunciate leggendarie contromisure per sgominare truffaldini e filibustieri. Sono in allarme tutti, per un motivo o per l’altro. Pure l’università. I centri di ricerca, altro luminoso esempio, saranno finanziati con 1,6 miliardi di euro. Ma la senatrice a vita Elena Cattaneo, che dirige il laboratorio di biologia delle cellule staminali alla Statale di Milano, segnala «un’opaca spartizione di risorse, priva di visione a lungo termine e non aperta alla competizione». Insomma: pochi progetti, per i soliti noti.
Comunque sia: a ridimensionare ogni velleità è arrivata la guerra. In Ucraina. Dietro l’angolo. E il nostro mitologico Recovery sembra ormai preistorico. L’Europa invia armi a Kiev, il governo tenta di evitare il cappio energetico di Mosca e i cittadini fronteggiano un epocale aggravio dei prezzi. Il Pnrr s’è impantanato. Sarà divorato dall’inflazione. Bisognerà rifare gli appalti. Dovremo indebitarci, ancora una volta. E non per raggiungere un’impareggiabile crescita, ma solo per rimanere a galla.
Il ministero più in ambasce è quello della Transizione ecologica, guidato da Roberto Cingolani: 34 miliardi e ben 11 obiettivi da centrare entro la fine di giugno. Energie rinnovabili, idrogeno, mobilità sostenibile, tutela del territorio. Tutti strabilianti traguardi oggi oscurati dall’assoluta dipendenza dal gas russo. L’Italia ricacciata indietro di un secolo. A temere buio, freddo e gelo. Ora deve passare la nottata. Lo stesso Cingolani chiede flessibilità: «Sono convinto che l’Europa saprà essere molto pragmatica. Il punto è valutare cosa c’è da cambiare in corso d’opera». Già un mese fa, metteva le mani avanti: «L’aumento del costo dell’energia rischia di superare l’intero pacchetto del Pnrr». Figurarsi adesso, con questi bombardamenti.
Il salvifico piano europeo servirà, bene che vada, a non sprofondare. Giancarlo Giorgetti, che guida il dicastero dello Sviluppo economico, ammette: «L’aggravarsi degli scenari internazionali potrebbe mettere a repentaglio la realizzazione di alcuni obiettivi». Un eufemismo. Reiterato dall’altro ultradraghiano, Daniele Franco, ministro dell’Economia sempre parco di parole. Caro energia e inflazione costringeranno a riscrivere tutto, lascia intendere. Il governo è pronto a ricorrere a una procedura «di revisione dei contenuti» del Recovery plan.
E proprio al fidato Franco, il premier affida ora la trattativa con Bruxelles per discutere gli inevitabili aggiustamenti. La transizione ecologica degli esordi è spazzata via dal conflitto. Bisogna costruire rigassificatori e impianti di stoccaggio, per aumentare l’importazione di gas liquido dagli Stati Uniti. E perfino una di quelle centrali nucleari avversatissime per decenni. Alla faccia di grillini e gretini. Solo la paura di Vladimir il terribile poteva riuscire a far novanta.