L’intelligenza artificiale dilaga: è creativa e si adatta all’umore di chi si trova davanti. Così macchine ed esseri umani sono destinati a collaborare. Aumentando la produttività senza sacrificare l’occupazione.
Mai spazientita, sempre cortese e disponibile, la commessa mette su uno sguardo dispiaciuto se ci mostriamo arrabbiati, si accende in un sorriso per ricambiare il nostro. Cattura gli stati d’animo del suo interlocutore, le sfumature di stizza, fretta, noia. Calibra azioni e reazioni: propone un buono sconto se siamo in procinto d’insultarla; dà consigli su abbinamenti tra maglioni e pantaloni, se ci coglie in vena d’acquisti.
Non sarebbe niente d’eccezionale se la commessa non fosse un’immagine animata su uno schermo, manovrata da un computer che non solo decifra le richieste espresse a voce dagli utenti, ma intuisce e decodifica l’umore di chi l’interroga. «È un’intelligenza artificiale, un’Ai emozionale, progettata per essere empatica, per costruire una relazione personalizzata con il pubblico» spiega Ernesto Di Iorio, ceo di QuestIT, la società senese che da 15 anni sviluppa queste tecnologie e ora le sta portando sul mercato. «Le macchine» aggiunge «possono diventare il primo punto di contatto tra azienda e cliente, pubblica amministrazione e cittadino, servizi sanitari e pazienti. Raggiungendo una capillarità e un tocco d’intimità che altrimenti non sarebbero possibili».
È l’antipasto del metaverso, lo spazio virtuale su cui scommette Mark Zuckerberg, un mondo parallelo nel quale interagiremo in forma di avatar. Dove incontreremo addetti entusiasti in negozi digitali, dipendenti di uffici pubblici oltremodo solerti, medici e insegnanti sapienti, tutti manovrati da macchine. Sostituti che renderanno marginali, o secondari, i loro equivalenti in carne e ossa.
Non accadrà tra dieci anni o chissà quando, sta succedendo adesso: questa modalità d’interazione può già essere integrata in qualsiasi applicazione per il telefonino e sito web. In generale, si sta affermando una nouvelle vague dell’intelligenza artificiale, che dopo l’automazione robotica, la ripetizione di mansioni da catena di montaggio, vuole prendersi il privilegio del contatto a uno a uno: alla freddezza della serialità, aggiunge il calore della personalità. All’esotismo dei laboratori d’Oriente e d’Oltreoceano, accosta l’estro italiano.
Nel Bel Paese, il settore è al decollo: secondo gli ultimi dati diffusi dagli Osservatori del Politecnico di Milano, il mercato di soluzioni legate all’Ai è cresciuto del 27 per cento nel 2021, toccando i 380 milioni di euro. Un valore raddoppiato in due anni. E se un terzo degli investimenti va all’analisi dei dati, il 17,5 per cento si concentra sull’interpretazione del linguaggio naturale. Il nostro modo di esprimerci, come se fossimo di fronte a un altro essere umano.
«L’intelligenza artificiale che usiamo può essere di supporto nell’assemblare video, scrivere interi testi e articoli di giornale. Sa pesare l’attendibilità delle fonti e schivare la trappola delle fake news. Raccoglie le informazioni su un argomento e propone storie per svilupparle in modo coerente» elenca Jacopo Perfetti, co-fondatore e ceo di Oblique.ai, una neonata agenzia di creatività messa in moto dalla potenza degli algoritmi. «Che nulla possono senza l’ingegno, l’intuito, l’intervento umano. L’alta qualità, la cura, restano una sua prerogativa» frena Perfetti. Che chiarisce: «Il futuro passa da una collaborazione tra i due mondi, altrimenti sono due potenziali sprecati».
Immaginare macchine sempre più versatili come partner quotidiani, alla stregua di alleati, è la cura e il compromesso per non precipitare nella deriva distopica di diventare tutti superflui, superati, inutili. Anche perché non sembrano più esistere zone franche, o vanno progressivamente sfumando: l’Inps sta testando un sistema automatico per la classificazione e lo smistamento dei messaggi di posta elettronica certificata; la start-up tedesca Personio ha superato la valutazione di 6,3 miliardi di dollari grazie ai suoi software evoluti di gestione delle risorse umane; in Cina, un procuratore di bit viene usato per formulare accuse in tribunale.
Intanto, negli Stati Uniti, il solito, incontenibile Elon Musk ha in cantiere androidi da impiegare nelle sue fabbriche. E preconizza robotaxi: guidano senza conducente grazie al pilota automatico delle Tesla. Pare avverarsi la profezia espressa dal guru dell’informatica Jerry Kaplan, teorizzata nel libro Le persone non servono (Luiss University Press): «Recenti passi avanti nella robotica, nella percezione e nel machine learning… stanno attivando una nuova generazione di sistemi capaci di rivaleggiare con le capacità umane, se non di superarle» si legge. Con un ovvio corollario: «Il lavoro sarà svolto più velocemente, più accuratamente e un prezzo più basso di quanto tu possa mai fare». Kaplan va oltre: «Senza aggiustamenti nel nostro sistema economico e senza una politica normativa, potremmo trovarci in un lungo periodo di disordini sociali».
Nulla di inedito: è un ricorso storico accelerato. «In passato, i mutamenti erano generazionali, ora le trasformazioni sono rapidissime. Il passo del cambiamento si è fatto troppo veloce, che non si adatta ai ritmi umani. Con una novità recente: dopo i meccanici, questa metamorfosi si allarga agli impiegati, ai colletti bianchi» ragiona Luigi Laura, professore di algoritmi all’Università Uninettuno e firma della prefazione italiana del saggio di Kaplan. Che traccia una via d’uscita, uno spiraglio di sensato, prudente ottimismo: «Le macchine dovranno sempre avere persone che le fanno funzionare, le istruiscono, verificano che il loro operato sia corretto e non viziato da pregiudizi». Serve una sorta di new deal, di patto di non belligeranza, di cooperazione tra i cervelli di neuroni e silicio. Peraltro, ci sono ambiti in cui l’automazione è utile se non essenziale. Un esempio lo fa lo stesso Laura, autore a sua volta del saggio Breve e universale storia degli algoritmi (Luiss University Press): «Pensiamo all’agricoltura. Prima i pesticidi venivano diffusi in tutto il campo, ora ci sono trattori che inquadrano le singole foglie e spruzzano la sostanza solo su quelle che ne hanno bisogno». Oppure, nella produzione industriale, la robotica in alcuni contesti preserva, non trasforma. Impedisce possibili contaminazioni, mantiene la qualità totale del prodotto.
È il caso dello stabilimento di Vinadio (Cuneo) di Acqua Sant’Anna, tra i più evoluti al mondo: attraverso 600 chilometri di tubazioni, l’acqua che sgorga pura dalle sorgenti, poste fino a 1.950 metri d’altitudine, viene incanalata e condotta in serbatoi d’acciaio inox. Da qui partono le linee produttive e l’acqua è subito imbottigliata, affinché conservi intatte le sue caratteristiche organolettiche. A completare l’opera, provvedono robot automatizzati che movimentano le merci e gestiscono la logistica interna. Hanno una precisione superiore al 99,5 per cento, rispettano l’ambiente (funzionano con batterie ricaricabili) e aumentano la sicurezza sul lavoro, eliminando incidenti alle persone e danni alle cose.
«In un anno difficile che ha messo a dura prova il sistema economico nazionale e gran parte delle imprese, abbiamo voluto continuare a investire perché crediamo fortemente nelle nostre potenzialità di sviluppo che passano necessariamente da un ammodernamento e aggiornamento continuo, volto a ottimizzare l’efficienza produttiva» ha spiegato Alberto Bertone, presidente e amministratore delegato di Acqua Sant’Anna, annunciando il recente stanziamento di 10 milioni di euro per ampliare la gamma dei robot e acquistare una nuova linea di imbottigliamento, che potenziano l’automazione dello stabilimento di Vinadio.
Sono tutte liturgie tipiche dell’industria 4.0, la fabbrica ripensata e connessa, che non si limita a funzionare con una raffinatezza e accuratezza maggiori rispetto al passato, ma è capace di sorvegliare se stessa, farsi custode della sua continuità nel corso del tempo: le macchine si accorgono di eventuali anomalie che le riguardano e le segnalano affinché vengano riparate da un operatore con prontezza, evitando guasti più gravi e interventi onerosi. La traiettoria è chiara e univoca: dietro ogni oggetto che maneggiamo, dentro qualunque prodotto che acquistiamo, si nasconde una galassia di nuove avanzate complessità, semplificate da un’orchestra di algoritmi. Un altro territorio in cui il tocco, o meglio l’occhio elettronico è benvenuto in quanto più lungimirante di quello umano, è la protezione della proprietà intellettuale: «L’Ai può individuare se un modello, per esempio di un abito oppure di una scarpa, è stato copiato da altri marchi. Ci riesce scrutinando nel dettaglio le foto pubblicate sui loro siti» osserva Giuseppe Santonato, responsabile per l’Europa occidentale dell’intelligenza artificiale e dell’automazione nella società di consulenza EY.
La frontiera è di grande interesse per la moda, il lusso, gli altri settori in cui il made in Italy eccelle ed è cannibalizzato. «Un software agisce da sentinella, segnala l’anomalia, poi c’è una figura specifica ad attivarsi per la tutela del prodotto. Lo stesso succede con le ecografie o le analisi cliniche: il computer rileva eventuali problematiche, il dottore le interpreta e decide come curarle. La collaborazione è essenziale: la macchina non può funzionare senza l’uomo; uno, senza l’altra, non riesce a gestire l’enorme mole di dati che caratterizza la società odierna». E proprio il metaverso si candida a essere un terreno fertile per quest’interscambio, finti commessi senzienti a parte: «Ci attende» prosegue Santonato «una vita collettiva staccata dalle liturgie classiche del quotidiano, una modalità per far espandere il digitale nel mondo del lavoro, per costruire professioni, scambi e comunicazione tra le persone. Per diffondere le conoscenze».
Il nodo, dunque, non è tecnologico, ma in prima battuta euristico ed economico. In gioco c’è una ridistribuzione dei redditi, il rischio di scavare ineguaglianze profonde: «La domanda corretta da farsi è se i vantaggi portati dall’Ai saranno diffusi o accentrati. Nel momento in cui per creare un prodotto serve un’ora anziché tre, chi ci guadagna? Anche gli addetti a quella mansione, o solo l’imprenditore, che aumenta la sua marginalità, si arricchisce, costringe operai e impiegati a sfiancarsi per più tempo per mantenere lo stesso livello di stipendio?» osserva Jacopo Perfetti, che oltre a fondare la società Oblique.ai ha scritto il libro Inventati il lavoro (Feltrinelli). «Sopravvivere alla fine del posto fisso e svegliarsi ogni mattina con il sorriso» recita il sottotitolo: «È finita» chiosa l’autore «l’era in cui si inizia in un’azienda con uno stage e si esce con la pensione. Bisogna imparare a rinnovarsi professionalmente. È la via meno facile, ma più entusiasmante».
Buoni propositi dei singoli a parte, serve una cornice di interventi normativi per fissare limiti e paletti, senza frustrare le opportunità della rivoluzione in corso. Il Parlamento europeo ha istituito la Commissione speciale sull’intelligenza artificiale in un’era digitale allo scopo «di approfondire gli approcci dei diversi Stati e avanzare delle proposte per la legislazione futura». Sembra un po’ una manovra attendista, un prendere tempo per vedere cosa succede. Intanto la tecnologia corre e scappa impetuosa, non resta certo ferma a guardare.
