Home » Arrivano le app che ti fanno guadagnare

Arrivano le app che ti fanno guadagnare

Arrivano le app che ti fanno guadagnare

Pagano ogni like, per rispondere a sondaggi o camminare. Permettono di comprare prodotti o vivere esperienze uniche. Regalano il gusto di ribellarsi ai social ladri di tempo. Ecco come trasformare sé stessi in un prodotto redditizio.


Come un portentoso e sterminato taccuino degli appunti, lo smartphone prende nota delle nostre attività quotidiane minime: quanto camminiamo, i contenuti che guardiamo in rete, a cosa lasciamo un cuoricino. Come un puntiglioso e silenzioso registratore di cassa tascabile, trasforma queste interazioni in denaro: vende la nostra attenzione e le nostre preferenze a chi fa pubblicità.

«Se il servizio è gratis, il prodotto sei tu» è il celebre avvertimento pronunciato da Jaron Lanier, il pioniere della realtà virtuale. Se un’applicazione non ha un costo, è probabile che la stiamo pagando con i nostri dati. Con l’investimento del nostro tempo. Qualcosa, però, sta cambiando. Si fanno largo una serie di programmi che rimborsano gli utenti, riconoscono loro crediti o bonus in cambio delle azioni più semplici: «Si guadagna quando si riceve un like o un commento. Se un post, una foto o un video vengono guardati oppure ogni volta che aumenta il numero dei follower» elenca Andrea Iervolino, fondatore e ceo di TaTaTu. Un social network a tutti gli effetti, con modalità d’interazione consuete, più una particolarità in evidenza: «Your balance», un portafogli di monete virtuali, che cresce progressivamente durante l’uso. Panorama, in 24 ore di prova, tra il bonus iniziale e le ricompense per le classiche attività su piattaforme analoghe, si è visto accreditare l’equivalente di circa 23 euro.

«Abbiamo creato la sharing economy dei dati. L’idea è restituire alle persone un pezzetto del valore che generano» dice Iervolino, che come mestiere principale fa il produttore cinematografico, dal notevole successo internazionale: all’attivo ha oltre 65 film, ha lavorato con colonne di Hollywood quali Antonio Banderas, John Travolta, Sarah Jessica Parker e Renée Zellweger. TaTaTu non regala denaro, ma eroga Ttu: un gettone di bit spendibile su un e-commerce interno dove si trova un po’ di tutto (prodotti di tecnologia e bellezza, design, giocattoli, persino corsi di formazione e master universitari) o utilizzabile per partecipare ad aste. «In palio ci sono oggetti ed esperienze uniche, come la visita a un set durante le riprese, un incontro con Johnny Depp, un autografo di Morgan Freeman». È qui il ponte di collegamento tra le due vite del produttore-imprenditore.

La piattaforma è ancora in fase di start-up, nei prossimi mesi avverrà il lancio in grande stile, che coinvolgerà molte celebrità. All’estero, intanto, il servizio ha fatto un ulteriore passo in avanti: remunera chi vede video in streaming, ma non chi guarda le pubblicità: «Il coinvolgimento degli annunci deve essere genuino, è un concetto importantissimo, altrimenti perdono di efficacia» sottolinea Iervolino, convinto che tale modello diventerà la regola in futuro. «Gli utenti sono intelligenti, non vogliono essere sfruttati, ma rispettati. Se un sito non darà loro niente, non ci andranno più».

Magari sarà davvero così, già una volta il 34enne ceo ha avuto ragione su una rivoluzione all’orizzonte: «Quando ero agli inizi della mia carriera, chiedevo ai registi di girare in digitale, mi cacciavano via, volevano usare la pellicola. Oggi l’hanno abbandonata». Il nuovo, per affermarsi, ha bisogno di tempo. Sullo stesso principio di TaTaTu si basano i programmini che pagano chi risponde a sondaggi o svolge piccoli incarichi nei dintorni della propria posizione. Con un beneficio minimo, proporzionato all’impegno richiesto.

L’altro filone florido coinvolge le applicazioni in grado di remunerare chi si muove, corre, fa sport. Un tanto a caloria bruciata, un tot a passo. Lo smartphone, d’altronde, ha di serie gli strumenti tecnologici per captare queste informazioni. «Lo stile di vita sedentario è un problema mondiale di salute pubblica e rappresenta il quarto fattore di rischio di morte nel mondo. Vogliamo mettere il camminare al centro della vita quotidiana» spiega Yves Benchimol, ceo di WeWard, la app da poco arrivata in Italia e subito tra le più gettonate su iPhone e Android.

In meno di tre mesi, si aggira intorno ai 2 milioni di utenti attivi (in senso molto letterale), attratti da una promessa ghiotta: ricevere punti, i Ward, da convertire in euro e vederli accreditati sul proprio conto corrente, utilizzarli nei negozi convenzionati, trasformarli in donazioni a onlus. «Siamo riusciti a ridistribuire 2,1 milioni di euro ai nostri utenti, di cui 70 mila a enti benefici» svela Benchimol, che illustra le sorgenti di guadagno, il modello di business alla base del meccanismo: «Abbiamo diversi tipi di fonti di reddito. Attività commerciali locali e partner di vendita al dettaglio che inseriamo nella mappa dell’app e in questo modo creiamo loro traffico aggiuntivo; offriamo spazi pubblicitari, un marketplace e un sistema di affiliazione, secondo gli obiettivi dei marchi sportivi e di lifestyle».

Anche l’ambiente ringrazia: «A oggi gli utenti italiani di WeWard hanno già totalizzato 92 miliardi di passi cioè circa 70 milioni di chilometri, evitando 10 tonnellate di emissioni di anidride carbonica». In generale, l’incentivo economico fa miracoli. Ma c’è uno spettro all’orizzonte, in grado di minare la salute di queste ambiziose app: «Danno agli inserzionisti che le finanziano fiammate di notorietà, sono sostenute da platee di utenti alla ricerca di un beneficio immediato e misurabile. L’efficacia di queste campagne, perciò, rimane relativa» osserva Andrea Boscaro, fondatore e partner di The Vortex, società di formazione sui temi di marketing digitale. La bolla, alla lunga, potrebbe sgonfiarsi: «A venire meno» rileva Boscaro «è il requisito della spontaneità». Ovvero la grande arma in mano a Facebook, Instagram e tutti i soliti noti: per quanto rivendano le nostre informazioni al migliore offerente, non riusciamo a fare a meno di regalargli tempo. Non è amore, né fedeltà. È dipendenza.

© Riproduzione Riservata