L’uomo-icona che «sentiva» l’Italia più vera

Era il 25 aprile di 14 anni fa. Tre settimane prima un terremoto aveva raso al suolo L’Aquila e molti paesi dell’Abruzzo. Silvio Berlusconi aveva deciso di commemorare la Festa della Liberazione fra le macerie, per richiamare la necessità di unire l’Italia nella sfida della ricostruzione. Ricordo le immagini del presidente del Consiglio che, con il fazzoletto partigiano al collo, abbracciava le persone e prometteva a una pensionata senza dentiera un aiuto per pagarsi il dentista. Credo che quello abbia rappresentato il punto di massimo consenso raggiunto dal Cavaliere.

Così come ricordo la scena di Berlusconi fra la gente, ho memoria anche di un collegamento con Dario Franceschini dai medesimi luoghi. A quell’epoca il parlamentare ed ex ministro del Pd era il segretario del partito, carica che aveva occupato quando dopo l’ennesima sconfitta elettorale Walter Veltroni aveva deciso di farsi da parte. Prima che iniziassero le riprese ufficiali, Franceschini se ne stava in silenzio, impettito fra la folla, aggiustandosi la cravatta. Tra lui e i terremotati c’era un muro invisibile. In attesa della diretta, era palpabile la separazione tra i due mondi: quello del compagno segretario e quello della gente rimasta senza casa. Non c’era empatia, non c’era umana solidarietà. Solo freddezza: una scena da eseguire per ragioni di copione televisivo. Il contrario di quanto avevano trasmesso nelle abitazioni di milioni di italiani le immagini del Cavaliere in mezzo alla folla.

Ecco, se si vogliono capire le ragioni dello straordinario successo politico di Berlusconi e l’incredibile durata del consenso di cui ha goduto per anni bisogna partire da lì, da Onna, e da quel 25 aprile che celebrò il suo quarto ritorno al governo, dopo la parentesi durata appena due anni del secondo Romano Prodi. Il Cavaliere sapeva entrare in sintonia con le persone, anche con quelle più semplici. Aldo Cazzullo, sul Corriere, ha notato la curiosa contraddizione di un ricco che piaceva ai poveri. Per anni la classe operaia era andata in sezione, poi con Berlusconi aveva scelto di andare in paradiso, perché se il Pci e la Cgil propugnavano un futuro di lotte, il padrone di Mediaset, l’uomo che aveva inventato in Italia la tv commerciale, assicurava un futuro più roseo, con meno tasse, più diritti, garantendo che con lui sarebbero stati tutti padroni in casa propria. Sì, la sinistra voleva fare la rivoluzione, ma poi precisava che la rivoluzione non è mai un pranzo di gala e dunque serviva prepararsi a soffrire. Il fondatore di Forza Italia invece non solo prometteva una rivoluzione liberale, che già suona meglio, ma in sovrappiù aggiungeva che sarebbe proprio stato un pranzo di gala, dove tutti avrebbero potuto stare meglio.

Qualcuno per questo lo ha accusato di populismo, ma ad imputargli di fare promesse non realizzabili era una sinistra che fino al giorno prima aveva illuso i suoi sostenitori con il Sol dell’avvenir, assicurando una redistribuzione di ricchezza che non è mai arrivata in nessun Paese socialista, ma anzi ha condannato le classi più povere a un ribasso dei redditi. Berlusconi conquistò i ceti popolari, mentre la sinistra si accaparrò le élite. I giornali lo disprezzavano, i giudici lo inseguivano, ma la maggioranza degli italiani votava per lui, perché a differenza degli abitanti delle cosiddette Ztl parlava un linguaggio comprensibile e diretto. Niente discorsi da prima repubblica, nessuna convergenza parallela, nessuna genuflessione nei confronti dell’establishment, ma un rapporto diretto con il suo elettorato, al quale parlare non in una sezione, bensì direttamente in tv, spazzando via le noiose tribune politiche per sostituirle con un’informazione vivace, i cosiddetti talkshow.

Berlusconi ha ribaltato i canoni della politica, mettendo il suo nome e la sua vita in prima fila. Se il personale è politico, come una volta dicevano quelli di sinistra applicando l’ideologia anche alle storie private, la sua vita era non solo un romanzo, ma anche un sogno da seguire in diretta, meglio di una delle soap opera con cui aveva fatto ricche le sue televisioni.

Silvio Berlusconi non era solo popolare, ma era un’icona pop che travalicava la politica per identificarsi con i costumi. Anni fa, dopo la sconfitta del 2006, era entrato in una sorta di depressione da astinenza del potere, tanto che si cominciò a parlare della possibilità che passasse la mano. Ricordo che ad un certo punto parve crescere la stella di Maria Vittoria Brambilla, che, si diceva, avrebbe potuto anche essere candidata dal Cavaliere come futuro presidente del Consiglio. Poi, all’improvviso tutto cambiò e Berlusconi tornò a essere il leader che tutti hanno conosciuto. Ricordo che in quei giorni, incontrandolo a Macherio, nel meraviglioso gazebo in vetro che la moglie Veronica aveva fatto erigere in mezzo al prato, gli chiesi che cosa lo avesse ritemprato. «Vedi», mi spiegò, «settimane fa sono stato invitato a chiudere la campagna elettorale a Lucca, dove si votava per il sindaco. E mentre lasciavo il palco ho sentito una donna che mi chiamava urlando più volte il mio nome. Mi sono girato e ho visto che teneva tra le braccia un bambino. Voleva che mettessi la mano sulla testa di suo figlio». Quel giorno gli bastò per sentirsi un po’ papa e da lì in poi, ripreso il contatto con il suo elettorato, tornò il Berlusconi di sempre fino alla fine.

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