Noble per la pace, Aung San Su Kyi
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Myanmar, Aung San Suu Kyi, i Rohingya e il premio Nobel alle spalle

La sera del 9 novembre del 2015, la folla ha lentamente riempito i marciapiedi e la strada davanti al quartiere generale della Lega Nazionale per la Democrazia del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi.

I birmani si erano alzati presto per andare a votare nelle prime elezioni davvero libere in 25 anni, in ordinate e tranquille file fuori dai seggi della capitale commerciale Yangon.

Dopo il processo di riforma avviato nel 2011, 50 anni di dittatura militare sembravano lasciare il passo ad una epoca nuova. I birmani uscivano dai seggi elettorali con un dito marchiato di inchiostro e con sorrisi senza ingenuità.

L'area contrassegnata con il cerchio rosso è lo Stato dell'Arakan (ora Rakhine), Myanmar, abitato dai Rohingya; più a ovest, con il contrassegno blu l'area del Bangladesh dove si trasferiscono i profughi della minoranza musulmana, agosto 2017 (credits: Scribble Maps, Google Maps, Panorama.it)

Il premio Nobel

Il giorno dopo, la vittoria della premio Nobel per la Pace che per il suo popolo aveva passato 15 anni agli arresti domiciliari separandosi dalla sua famiglia, è esplosa in una valanga di consensi, molti più di quelli previsti.

I giornalisti e gli osservatori stranieri sentivano addosso il privilegio essere lì in quel momento perfetto, come se stessero mettendo il primo piede sulla luna, ma per ballare con birmani accorsi nella sede del partito al ritmo del rap della National League, intervistare i reduci di 7, 10, 13, "io 20!", anni di arresti in squallide prigioni con cibo pieno di sassi mentre ora si beveva la Myanmar beer dei militari – che sarebbe stata acquistata pochi mesi dopo dalla multinazionale Heineken.

Nemmeno un anno dopo, ad ottobre del 2016, l’uccisione di nove poliziotti di frontiera da parte di un nuovo gruppo di ribelli, l’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), ha di nuovo cambiato la storia, mentre in altre zone etniche si intensificava il confronto con i militari.

Il 25 agosto di quest’anno, altri attacchi in Rakhine (il nuovo nome dell'Arakan), almeno 400 morti.

Un totale di oltre 240 mila profughi – 160mila solo nelle ultime due settimane - della minoranza musulmana Rohingya in fuga verso il Bangladesh, oltre a presunti stupri, arresti e uccisioni, ricordano ora al mondo che le transizioni non sono una favola e Aung San Suu Kyi non è la protagonista di un film romantico con sceneggiatura scritta in base alle aspettative occidentali.

(Foto SAM JAHAN/AFP/Getty Images) Rifugiati Rohingya attraversano il campo profughi di Balukhali vicino al confine di Myanmar, in Bangladesh, 27 agosto 2017. 

Sbagliato vederla come icona dei diritti umani 

Da più parti si chiede che le venga tolto il Nobel per la Pace per non essersi esposta in difesa della minoranza musulmana, per non aver condannato l’azione dei militari. Gli altri premi Nobel le scrivono, le chiedono di far qualcosa, anche Malala.

Una petizione su change.org "Togliete il premio Nobel ad Aung San Suu Kyi" ha raccolto quasi 370mila firme in pochissimi giorni, appoggiata da editorialisti internazionali.

Ma gli analisti e i diplomatici che vivono in Myanmar sono più cauti.

“Noi non l’abbiamo mai vista come un’icona dei diritti umani, questa è una costruzione di voi occidentali. Per noi è un politico, non ci siamo stupiti. Quella in Rakhine è una situazione complessa, anche se lei potrebbe dire qualcosa di più,” spiega una diplomatico di un Paese asiatico intervistato a Yangon che vuole rimanere anonimo.

Ci sono elementi forti a suo sfavore. L’ultimo giro di vite dei militari supporta sempre di più l’ipotesi di una pulizia etnica che richiede una presa di posizione forte.

Un milione di Rohingya

I Rohingya sono circa 1,1 milioni, per la maggior parte confinati in campi per sfollati o in villaggi a Nord con fortissime limitazioni e per la maggior parte senza cittadinanza. Ai 240mila profughi si sommano altri 60mila in India, 400mila da anni a Cox Bazar, in Bangladesh, l’intera diaspora di chi è scappato in decenni di persecuzioni.

Ora, il Consigliere per la Sicurezza del Myanmar ha annunciato che solo chi è in grado di dimostrare il diritto a richiedere la cittadinanza potrà tornare. Non è dato sapere quanti siano scappati con documenti risalenti a decenni fa.

"Siete disinformati"

Nelle sue poche dichiarazioni pubbliche, Aung San Suu Kyi si è soffermata invece sull'"iceberg di disinformazione" dato in pasto ai media occidentali dai ribelli.

Nel Paese, è convinta, è arrivato il terrorismo, e questa è un’azione di difesa dello Stato. "Il governo è impegnato a difendere tutti i civili" ma "non si può risolvere la questione in 18 mesi." E ricorda che gli attacchi sono arrivati dopo la pubblicazione dei suggerimenti offerti dalla Commissione guidata da Kofi Annan per risolvere la situazione in Rakhine e da lei stessa istituita.

La sfida della transizione è mastodontica, mentre le dinamiche della capitale Naypyidaw e il reale raggio di azione del politico Aung San Suu Kyi rimangono nebulosi. Non è chiaro nemmeno se lei sia d’accordo con quanto pubblicato dal suo Ufficio Informazione. Dalle sue dichiarazioni non si evince un forte contrasto con i militari sul tema, né un empatia particolare nei confronti dei Rohingya.

Ma chiedere che le venga tolto il Nobel è inutile e controproducente.

La transizione verso una democrazia è ancora molto sbilanciata a favore del potere dei militari. Focalizzare l’attenzione su di lei – spesso perché del Myanmar si conosce solo lei – significa fare un favore al generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate birmane, e primo responsabile della tragedia in corso. Senza dimenticare le responsabilità del capo dell’Arsa. Se il risultato della repressione è l’aumento della popolarità dei militari in Patria e il diminuire di quella di Suu Kyi sul palco internazionale, perché smettere?

Togliere – anche virtualmente – il Nobel alla Lady polarizzerebbe ancor più il popolo birmano contro la comunità internazionale, alimentando la narrativa nazionalista senza ottenere alcun risultato concreto.

Se lo stesso governo è impegnato nella sua propaganda, informazioni inaccurate si moltiplicano anche sulla stessa Suu Kyi. Viene ad esempio accusata di non riconoscere l’identità dei "Rohingya". Ma il termine "Rohingya" è controverso persino per alcuni musulmani e utilizzato, legittimamente, come strumento di lotta e visibilità. La sua richiesta, in occasione di una visita di Kerry nel 2006, fu non solo di non usare il termine "Rohingya", ma nemmeno il dispregiativo "Bengali" a favore del neutro "Musulmani di Arakan" per non infiammare tensioni. Aveva senso, nessuno sembra averla seguita.

Il premio fu conferito a lei, una Bamar, in riconoscimento di una lotta di liberazione per il suo popolo. Sul suo sacrificio per il suo popolo, dal suo punto di vista, è coerente. Non è il consenso della comunità internazionale il suo obiettivo.

Forse allora è il Premio Nobel per la Pace a dover essere abolito, non solo quello di Aung San Suu Kyi.

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