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JACQUES DEMARTHON/AFP/Getty Images - 25 maggio 2018
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Libia, il bluff di Parigi sulle elezioni rinviate

Elezioni rinviate a data da destinarsi. È questo, in sintesi, il risultato della riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di metà settembre, che ha esteso il mandato per la missione Unsmil in Libia fino al 15 settembre 2019, bocciando così de facto la proposta francese di tenere le elezioni presidenziali e parlamentari il 10 dicembre prossimo.

A passare è stata, invece, la proposta britannica che chiedeva sì di indire elezioni "il più presto possibile", ma soltanto "a patto che siano presenti le necessarie condizioni di sicurezza, tecniche, legislative e politiche". Cioè, in sostanza, in un futuro ben più lontano rispetto all’imminente stagione autunnale.

L’inverno libico è quindi una certezza, e non certo in senso meteorologico, bensì nel metaforico progressivo raffreddarsi dei rapporti tra i governi di Tripolitania e Cirenaica - ovvero i due volti del potere politico del Paese – così come tra Italia e Francia, ovvero i rispettivi sponsor del primo e del secondo protagonista della guerra civile.

Chi crede, però, che il rinvio delle elezioni di dicembre sia un fallimento della politica francese in Libia, ha ragione soltanto a metà. Perché le insistenze di Parigi sulla data del 10 erano più che altro una forzatura, decisa al fine di stanare la controparte (Tripoli) nel prendere una decisione sul tema. E la mossa da questo punto di vista è pienamente riuscita, poiché si è sostanzialmente dimostrato - anzitutto agli occhi del popolo libico - come il governo del premier Fayez Al Serraj per sua stessa ammissione non sia in grado di mettere in piedi un’elezione in Tripolitania, né tantomeno garantire il suo svolgimento in sicurezza.

Al contrario, il generale Khalifa Haftar che comanda col pugno di ferro sulla Cirenaica - e sul quale l’Eliseo ha scommesso tutto - ha affermato che Bengasi era pronta per il voto e che lui era certo di poter garantire le condizioni richieste dalle Nazioni Unite.

Dunque, con il rinvio si è voluto sottolineare come l’unico soggetto politico che possa garantire stabilità e offrire certezze istituzionali alla Libia si trova a Bengasi.

Il bluff di Parigi

Si aggiunga qui una riflessione perniciosa: siamo certi che Parigi volesse davvero un’elezione in dicembre e non avesse invece previsto il diniego dell’Onu? Siamo sicuri che non convenga anche all’Eliseo questo rinvio, stante il progressivo peggioramento delle condizioni di sicurezza a Tripoli?

Non è che il vero progetto della Francia consista nell’inviare in un secondo momento il generale Haftar e le sue truppe in Tripolitania, per incoronarlo a "salvatore della patria" una volta che la situazione si sarà fatta ancor più grave dal punto di vista della sicurezza? Il sospetto è grande.

Il governo francese sa bene che il generale possiede doppio passaporto – libico e americano – e che, da costituzione, non sarebbe un soggetto candidabile. Dunque, se avessero voluto rispettata la data del 10 dicembre, avrebbero agito tempestivamente per modificare la costituzione o per forzare la legge, affinché il loro candidato fosse in regola ed eleggibile (stesso problema lo ha peraltro Fayez Al Serraj, che possiede anche il passaporto britannico).

Inoltre, la certezza sulle condizioni di salute di Haftar è nota soltanto al governo di Parigi, dove lo stesso generale si è fatto curare nei mesi scorsi alimentando speculazioni di ogni genere.

Dunque, i francesi sanno meglio di chiunque quali carte siano realisticamente sul tavolo e possono anche aver lasciato che l’Onu sancisse l’ovvio, in attesa di studiare nuove strategie che avvantaggino Parigi rispetto a Roma.

La posizione del Fezzan

A Tripoli, infatti, la situazione non può che peggiorare, mentre nel Fezzan - la grande regione desertica dove abitano soltanto clan e tribù di berberi e/o tuareg - si ragiona da tempo circa una presa di distanza definitiva dalle regioni costiere.

Yusuf Abdulrahman, autorità locale della città dell’entroterra Sebha, ha dichiarato pochi giorni fa che se anche il governo locale del Fezzan non intende dichiarare l’indipendenza della regione, pretende però dalle autorità centrali maggiore autonomia politica e un incremento degli investimenti economici. E, soprattutto, chiede che l’istituzione di un governo di unità nazionale sia stabilito in una delle città del Fezzan, per spezzare simbolicamente la storica bipartizione del potere tra est e ovest.

Una provocazione, certo, che tuttavia chiarisce la presa di distanza delle comunità del retroterra libico, in questi anni quasi del tutto estranee alle logiche di ripartizione del potere e che non si sono mai schierate nella guerra civile.

Il Fezzan guarda cioè esclusivamente agli interessi e ai bisogni delle comunità indigene, che sono quasi del tutto disinteressate allo scontro armato in corso lungo le città-stato della costa, né vedono Haftar (tantomeno Serraj) come i possibili risolutori della crisi.

La Sicilia "ultima spiaggia"

Su tutto ciò, incombe l’appuntamento di novembre in Sicilia, una conferenza sponsorizzata dall’Italia e mal digerita dalla Francia, dove è attesa la presenza dei principali leader libici per dirimere una volta per tutte il nodo della composizione istituzionale della Libia futura, disegnare una roadmap elettorale che conduca il paese a elezioni certe, e traghettarlo fuori dalla crisi. Che il generale Haftar e il governo di Parigi scendano a patti con Roma e Serraj per quanto riguarda la geopolitica libica, è fuori discussione.

Come vuole il proverbio cinese, è assai più probabile che all’Eliseo si preferisca aspettare sulla sponda del fiume che passi il cadavere del nemico, per poi intervenire dopo un eventuale fallimento della diplomazia. Nonostante che, in Libia come nel Mediterraneo, di cadaveri ce ne siano stati già troppi.

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