Il filosofo Roberto Esposito.
Salute

Roberto Esposito: «Serve un limite allo stato di emergenza»

Lei ha scritto un libro fondamentale sull'immunità. Oggi sembra essere il tema centrale della nostra esistenza. Come valuta la situazione attuale e il clima di questi giorni?

«In effetti la realtà ha non solo confermato, ma anche sopravanzato, quanto avevo sostenuto venti anni fa. Naturalmente non ne traggo alcuna soddisfazione, visto che tale conferma è passata per la più drammatica crisi contemporanea. Certo, colpisce che proprio quando il processo di medicalizzazione della politica si è esteso dappertutto, si continui a criticare il paradigma che con largo anticipo lo aveva preconizzato».

È a favore del green pass?

«Sì, sono a favore. Restringe la libertà di una minoranza, per proteggere, almeno parzialmente, una maggioranza. Tutte le decisioni politiche hanno dei costi. Come è noto, non essendo realizzabile su questa terra il Bene, o la Giustizia, si deve optare responsabilmente per il male minore. Naturalmente cercando di contenere gli effetti negativi quanto possibile sul piano del tempo e dell'intensità».

Sta per essere introdotto il cosiddetto super green pass. Si arriva a sospendere dal lavoro chi non si vaccina, e si rifiutano i tamponi gratuiti. Non sarebbe leggermente meno autoritario consentire alla minoranza di effettuare un tampone gratis?

«Una volta introdotto il green pass, è inevitabile che si sospenda chi non si vaccina (senza licenziarlo). Circa la non gratuità dei tamponi è una misura di carattere politico: un'ulteriore pressione a vaccinarsi attraverso una sanzione economica. Chi non si vaccina gratuitamente, deve pagare la propria scelta. Nei momenti di crisi la politica rivela la sua originaria connessione con la forza. Solo le anime belle non lo sanno o fanno finta di non saperlo».

Non le sembra che sia stato invertito l'onere della prova, e cioè che oggi si venga considerati malati fino a prova contraria?

«La trasformazione biopolitica della società contemporanea rischia, alla lunga, di accostare il ruolo del cittadino a quello del paziente. Ma questa trasformazione non è stata studiata a tavolino dal potere per assoggettare la vita - la versione complottista. È richiesta da una società che da qualche secolo ha posto il problema della conservatio vitae al primo posto. Basta leggere qualche pagina di Thomas Hobbes per capirlo. Posso osservare che la discussione in corso è culturalmente assai fragile?»

In un altro splendido libro lei ha scritto: «L'immunità, benché necessaria alla conservazione della vita, una volta portata al di là di una certa soglia, la costringe in una sorta di gabbia in cui finisce per perdersi non solo la nostra libertà, ma il senso stesso della nostra esistenza». Ecco, non le pare che a quella soglia si sia pericolosamente vicini, ammesso che non sia stata già superata?

«Convengo che questa soglia sia vicina. Ma che la si raggiunga o meno non deriva dalle decisioni dei un governo. Dipende da un insieme di necessità e contingenze storiche che si possono di volta in volta fronteggiare, ma non esorcizzare. Quando Max Weber parlava di "gabbia d'acciaio" aveva ben presente questo carattere di destino - che possiamo 'gestire', ma non rimuovere».

Alcuni suoi colleghi, tra cui Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, hanno espresso seri dubbi sul green pass. Ha letto quello che hanno scritto? Che ne pensa?

«Li stimo entrambi e con Cacciari sono amico da 40 anni. Ma non condivido quanto hanno sostenuto. Con una differenza importante. Nel caso di Agamben la sua posizione scaturisce logicamente da quanto ha sempre sostenuto. In particolare da una sovrapposizione, secondo me forzata, tra stato di eccezione e stato di emergenza. La differenza non riguarda la quantità, ma la loro origine: lo stato di eccezione nasce dalla decisione soggettiva di una volontà sovrana. Lo stato di emergenza da una necessità oggettiva, come spiega bene il grande giurista Santi Romano a proposito del terremoto di Messina e Reggio del 1909. Certo, la definizione di necessità richiede sempre un'interpretazione soggettiva, ma mi pare evidente la differenza tra un colpo di stato e una pandemia. Cacciari, invece, anche nel suo ultimo, bellissimo, libro su Max Weber (Il lavoro dello spirito), riconosce la dialettica complessa che lega da un lato politica a scienza e dall'altro etica della convinzione ed etica della responsabilità. E nessuno più di Cacciari conosce il carattere tragico di scelte politiche inevitabili. Ecco, rispetto a questa consapevolezza realistica, mi sembra che da parte sua ci sia stato uno strappo "impolitico"».

Questi suoi colleghi (mi consenta il termine) sono stati molto attaccati. Non le sembra che porre dubbi e fare domande sia diventato un poco più difficile rispetto a prima della pandemia?

«Porre domande, anche dissentendo dagli altri, è un atto fondamentale in democrazia. Personalmente, quando una larga maggioranza attacca qualcuno, anche se questi ha torto, non solo non mi accodo alle critiche astiose, ma sento una forma di solidarietà per chi è sotto attacco, pur dissentendo, come sto facendo adesso, da lui».

Lei fa notare la differenza fra stato di eccezione e di emergenza. Non crede però che si debba mettere un limite? Cioè che si debba fissare un confine entro il quale la situazione non è più emergenziale e si convive con il virus? La sensazione è che si continui a prolungare l'emergenza indefinitamente: prima il pass, poi il super pass, poi ulteriori dosi, poi il vaccino ai minori… E nel frattempo alle restrizioni non seguono aperture.

«Sì. Va posto un limite quantitativo e qualitativo – oltre il quale il confine tra stato di eccezione e stato di emergenza tende a sfumare. L'emergenza istituzionalizzata muta di fatto l'ordinamento giuridico. Tuttavia ogni paragone con quanto è accaduto negli anni Trenta del secolo scorso è grottesco. Allora i virus che si volevano debellare - e che si debellarono - erano esseri umani. Paragoni del genere, anche impliciti, indeboliscono la posizione di chi li fa».

Spesso si fa riferimento a questa nuova categoria: i no vax. Diventa no vax chi è contro il green pass, chi parla di cure, insomma chiunque non si limite a dire "vaccinatevi". Sembra che sia stata creato il capro espiatorio perfetto, la categoria deviante che è bello odiare. È così?

«Mi pare che i cosiddetti "no vax" si debbano distinguere almeno in tre categorie: coloro che effettivamente hanno paura del vaccino, coloro che soffiano sul fuoco per motivi politici – cioè per guadagnare i loro voti strumentalmente – e coloro che dicono quello che pensano, come Cacciari e Agamben. Quando qualcuno sostiene qualcosa in cui crede, che palesemente non giova alla sua immagine, va rispettato, ascoltato e confutato sul merito di quanto dice, non sul fatto che lo dica».

Lei ha scritto anche a proposito della comunità. Si dice spesso che il green pass sia fondamentale proprio perché siamo in una comunità e bisogna salvare o comunque proteggere gli altri. Ho la sensazione però che il discorso sia fuorviante. mi pare che in realtà il vero discorso sia: proteggete voi stessi, la vostra sopravvivenza fisica, a costo di discriminare gli altri. Che ne pensa?

«Le due cose non sono necessariamente in contrasto. Si può difendere se stessi e anche gli altri. Bisogna stare attenti a non contrapporre "comunità" e "immunità". Benché sul piano paradigmatico siano contrarie, sul piano storico sono sempre intrecciate. Non esiste società che non abbia dei dispositivi immunitari, a partire dallo stesso diritto. Il punto è che, aldilà di una certa soglia, l'immunizzazione può nuocere alla società, trasformando la necessaria protezione in una forma di malattia autoimmune. Tutto sta nell'individuare tale soglia. Mai come nelle situazioni di crisi bisogna conservare equilibrio e articolazione di giudizio. Cosa piuttosto rara, se si ascoltano i talk televisivi».

È a favore dell'obbligo vaccinale?

«No, o solo in ultima istanza. In ogni caso, per vararlo, ci vorrebbe una legge apposita. In secondo luogo se lo decidesse un solo Paese dell'Unione Europea sarebbe da un lato problematico e dall'altro inutile, a meno di non chiudere le frontiere. Cosa che ovviamente non mi auguro».

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