Contrordine: quella del laptop di Hunter Biden non era una fake news

Alla fine ha dovuto riconoscerlo. Mercoledì scorso, il New York Times ha ammesso l’esistenza del controverso laptop (con relativi documenti) appartenente al figlio di Joe Biden, Hunter. Era l’ottobre del 2020, quando – in piena campagna elettorale per le elezioni presidenziali – il New York Post rivelò l’esistenza di alcune spinose email provenienti proprio dal pc di Hunter: email che, tra le altre cose, evidenziavano come Hunter avesse organizzato nel 2015 un incontro tra suo padre, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti, e un alto dirigente di Burisma Holdings (società energetica ucraina, ai cui vertici Hunter entrò nella primavera del 2014). L’esistenza di quella email sconfessò Joe Biden che, in precedenza, aveva affermato di non essere mai stato coinvolto negli affari del figlio. Sempre nel laptop fu rinvenuto materiale scabroso su Hunter, con immagini sessualmente esplicite e che lo mostravano fare uso di droghe.

La reazione allo scoop del New York Post fu durissima. Oltre 50 ex funzionari dell’intelligence statunitense firmarono una lettera, in cui si sosteneva che la rivelazione aveva “tutti i classici segni di un'operazione di informazione russa”. “Se abbiamo ragione”, scrissero, “questa è la Russia che cerca di influenzare il modo in cui gli americani votano in queste elezioni, e crediamo fermamente che gli americani debbano esserne consapevoli”. La tesi che si trattasse di disinformazione russa fu sostanzialmente rilanciata da varie testate, tra cui lo stesso New York Times. Non solo: in quei giorni febbrili, i big della Silicon Valley si adoperarono per censurare lo scoop del New York Post. Twitter e Facebook ne impedirono infatti la condivisione, sostenendo che le informazioni presenti nello scoop non risultassero verificate. Peccato però che, nel 2017, non si sognarono minimamente di bloccare la diffusione delle notizie relative al cosiddetto Dossier di Steele: un documento che costituì uno dei capisaldi dell’impianto accusatorio del Russiagate. Un documento, i cui contenuti non erano verificati e che si rivelò per giunta nel tempo poco più che una montatura.

Adesso però il New York Times è tornato sui suoi passi. “Persone che hanno familiarità con l'indagine hanno detto che i pubblici ministeri avevano esaminato le e-mail tra il signor Biden, il signor Archer e altri su Burisma e altre attività commerciali all'estero”, ha scritto il quotidiano della Grande Mela la settimana scorsa. “Quelle email sono state ottenute dal New York Times da una cache di file che sembra provenire da un laptop abbandonato dal signor Biden in un'officina di riparazioni del Delaware. L'email e le altre nella cache sono state autenticate da persone che hanno familiarità con loro e con l'indagine”, ha proseguito.

In tutto questo, dobbiamo sempre ricordare il periodo in cui fu messa in atto la censura. Era ottobre 2020: mancavano, cioè, poche settimane alle elezioni presidenziali che si sarebbero tenute il 3 novembre di quell’anno. Ebbene, davanti a rivelazioni (fondate) che avrebbero potuto mettere seriamente in crisi l’allora candidato democratico Joe Biden, la grande stampa, la Silicon Valley e pezzi dell’intelligence americana si sono di fatto schierati a favore del Partito Democratico. Sarà un caso, proprio alcuni settori dell’intelligence americana avevano contribuito a montare negli anni precedenti la bufala del Russiagate. E, sarà sempre un caso, Biden – a metà novembre del 2020 – assunse vari ex dirigenti di Facebook nel proprio team di transizione. L’aspetto ironico, se vogliamo, è che il New York Times ha ammesso ufficialmente soltanto adesso – a marzo 2022 – l’esistenza del famoso laptop: vale a dire circa 16 mesi dopo lo scoop del New York Post.

E’ in tal senso che l’ex presidente americano, Donald Trump, è andato all’attacco. “Il New York Times ha appena ammesso di aver partecipato a un tentativo di truccare le elezioni per Joe Biden”, ha tuonato in un comunicato stampa. Se i repubblicani (a partire dal senatore Ron Johnson) sono sul piede di guerra, i democratici riescono difficilmente a mascherare l’imbarazzo. E’ per esempio il caso della portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki. Costei aveva ai tempi bollato la storia del laptop come “disinformazione russa”. Ebbene, appositamente interpellata da alcuni giornalisti sulla questione pochi giorni fa, la diretta interessata ha glissato, limitandosi a dire che Hunter Biden non lavora per il governo degli Stati Uniti. Resta tuttavia il fatto che la vicenda del New York Post ha evidenziato un enorme problema di indebita collusione tra politica, grande stampa e big del web: una collusione verificatasi tra l’altro in un periodo delicatissimo come quello di una campagna elettorale.

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