Addio Inter, le ragioni di Conte e i torti di Zhang

Ora che il divorzio si è consumato, emerge con chiarezza un quadro che fino all'ultimo e ostinatamente è stato negato e dipinto come accerchiamento mediatico nei confronti dell'Inter. Non c'era alcun terrorismo nel descrivere come precaria, oltre i contesto di crisi che ha colpito anche altri club, la situazione in casa nerazzurra. E non c'era alcun eccesso di critica nell'etichettare come disastrosa la ricomparsa del giovane Steven Zhang in Italia dopo mesi di lontananza dal suo stesso club, lasciato in balia di mancati pagamenti, richieste di proroghe, dilazioni e deroghe varie.

Il futuro di Antonio Conte è stato da sempre descritto, in questa primavera di rincorsa allo scudetto, come il vero termometro dell'impatto della crisi sul futuro sportivo dell'Inter. Con il tecnico dentro, solo un passaggio difficile ma gestibile. Senza Conte e la sua smania di correre per vincere, uno scenario di ridimensionamento. A completare il puzzle mancano ancora tasselli e, in ogni caso, il lavoro dei dirigenti (Marotta e Ausilio) sarà fondamentale per consegnare al riavvio della stagione una squadra competitiva. Però la modalità con cui si è arrivati al momento dello strappo sono inquietanti e riportano alle responsabilità della proprietà cinese che ha fatto molto per l'Inter ma che da mesi viaggia su frequenze totalmente differenti.

Nessuno può chiedere a Suning di sacrificare centinaia di milioni di euro sull'altare di un altro scudetto o di un turno in più superato in Champions League, a maggior ragione quando la risalita dei ricavi post Covid è più una speranza che una certezza. Ma è legittimo che dal giovane Zhang siano pretese parole e visioni chiare che vadano oltre la ricetta delle lacrime e del sangue dettata con ancora la foto con il trofeo in stampa. Tempi sbagliati, modi sbagliati, contenuti zero. Non basta aver comunicato al management le nuove linee e considerare così esaurito il proprio lavoro di indirizzo. Non basta perché il calcio è un'industria particolare che si poggia anche su equilibri personali e di gruppo sacri, la base di un successo o di un insuccesso.

Conte ha fatto capire di essersi sentito solo per tanti mesi e certamente non ce l'aveva con Marotta, che può dire lo stesso. Può essere che le pretese del tecnico leccese (rosa non indebolita, qualche investimento e copertura mediatica nel chiarire gli obiettivi futuri) siano state ritenute eccessive, anche se in realtà sono il gancio cui si sono attaccate le speranze di milioni di tifosi. Quello in cui, però, Conte ha ragione da vendere è che dopo una stagione come questa, in cui chi ha lavorato ad Appiano Gentile si è fatto garante delle mancanze della proprietà, la sua richiesta di giocare a carte scoperte non possa essere fatta passare come il capriccio di un allenatore che batte cassa. Uno dei tanti.

Invece il giovane Zhang è tornato in Italia, ha festeggiato, si è fatto intervistare a comando senza una parola sull'unico tema che interessasse una volta esauriti i complimenti e le celebrazioni e - cosa più grave - pare aver tenuto un atteggiamento simile anche dentro la sua azienda, con uno dei manager che gli ha consentito quello scatto felice con la coppa in mano. Oggi le ragioni di Conte e i torti di Zhang paiono bel delineati, magari domani racconterà un finale diverso. Di sicuro lo scenario era sotto gli occhi di tanti e averlo descritto non è stato terrorismo mediatico ma semplice informazione, non ha fatto il male dell'Inter ma ne ha accompagnato la traiettoria (non finita) con rispetto. Lo stesso mostrato dalle istituzioni e da chi ha aiutato a far quadrare i conti in un inverno lungo e difficile.

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