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Come Trump usa i dazi contro la Cina

"Promises made, promises kept". Promesse fatte e mantenute. È tutto qui il segreto del successo di Donald Trump, il più criticato dei presidenti USA ma anche uno dei più determinati nel rispettare il programma presentato agli elettori americani lo scorso novembre. Ultima delle polemiche, stavolta provenienti esclusivamente dall’estero, è quella relativa alle misure protettive adottate dalla sua Amministrazione su alluminio e acciaio.

Una guerra sui dazi tesa a colpire soprattutto Cina e Corea del Sud, iniziata con elettrodomestici e pannelli solari, e proseguita adesso con i metalli pesanti, in attesa di nuove imposizioni che potrebbero colpire anche il settore automobilistico. La mossa, ardita ma non campata in aria, punta evidentemente a rivitalizzare il mercato americano e limitare pratiche anti-concorrenziali, che intendono privilegiare l’acquisto interno e l’indipendenza dall’estero, così come la tutela dell’occupazione degli operai statunitensi.

Trump, del resto, ha dichiarato in tempi non sospetti di voler difendere a ogni costo l’industria americana, rilanciando la sua personale filosofia del "Buy American, Hire American" (compra americano, assumi americano). E sin dal primo giorno di campagna elettorale ha messo nel mirino le scorrette manovre economiche della Cina, accusata di indebolire scientemente la moneta nazionale (renminbi) per favorire le proprie esportazioni, violando peraltro le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, WTO.

Gli americani sono con lui

Per adesso, i mercati hanno premiato la sua mossa e, per la prima volta dal 20 gennaio 2017, quando il 45esimo presidente è entrato in carica, anche la nazione si è unita intorno a lui. Dal mattatore socialdemocratico Bernie Sanders alla senatrice democratica Elisabeth Warren, fino ai sindacati del settore, tutti plaudono: "Non temo le tariffe, penso che i nostri accordi commerciali siano stati negoziati per lungo tempo a beneficio delle grandi multinazionali, non dei lavoratori americani" ha detto la Warren. "Per troppo tempo la leadership politica ha parlato senza agire. E questa non era l’America che i nostri operai volevano" ha sottolineato il sindacato dell’acciaio in una nota, così come ha fatto Afl-Cio, la più grande unione sindacale americana: «All’amministrazione va il nostro plauso per l’impegno nel risolvere il problema».

Insomma, una volta tanto Donald Trump ha il vento in poppa e prepara così il terreno per raccogliere nelle elezioni di mid-term un nuovo successo.

Australia, il partner chiave

In casa la manovra è stata dunque ben accolta. Ma fuori? Numerosi analisti temono che i dazi americani possano condurre anzitutto Stati Uniti e Cina sull’orlo della guerra commerciale. Su questo, il presidente è stato caustico: "Meglio di no, ma se c’è, c’è". La battuta si spiega meglio riascoltando le dichiarazioni di Trump in materia, che non concedono repliche: "sono vitali per la nostra sicurezza nazionale, assolutamente vitali. Se non hai l'acciaio, il paese non è tuo".

Dunque, nessun passo indietro. Anzi, il presidente è pronto a continuare sulla stessa linea, con nuovi provvedimenti. Ma ha anche teso una mano agli alleati australiani: "Saremo molto equi e molto flessibili […] Abbiamo relazioni molto buone con l’Australia, abbiamo un'eccedenza commerciale con questo Paese formidabile, un partner di lunga data", ha detto dichiarando che Canberra avrà l’esenzione dalle tariffe.

Stesso discorso vale per Canada e Messico. Ovvero, tutti i paesi geopoliticamente più vicini agli Stati Uniti, sui quali l’influenza di Washington è rilevante, ma soprattutto utili a costruire una cintura di sicurezza in chiave anti-cinese. Con questi ultimi, infatti, "stiamo negoziando il Nafta, se riusciamo ad avere un accordo che ponga fine al Nafta, non vi saranno dazi" ha detto il presidente in riferimento all’Accordo nordamericano per il libero scambio che prevede la progressiva eliminazione delle barriere tariffarie.

Ma è soprattutto all’Australia che si rivolge la partita. Scrive opportunamente la Farnesina: "L’Australia è tra i principali attori nella regione Asia-Pacifico, area di maggiore crescita economica nel medio-lungo termine e di crescente peso politico e strategico. Canberra vanta una rete di alleanze e accordi di libero scambio con i suoi principali partner quali Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda, che costituiscono il riferimento politico per lo sviluppo dei suoi interessi. Inoltre, ha siglato con gli Stati Uniti un accordo per il dispiegamento di 2.500 marines in basi australiane nel Northern Territory".

I rapporti con la Cina

Ma un ruolo di particolare importanza l’Australia lo ricopre nei rapporti con la Cina, oggi suo primo partner commerciale per quanto concerne energia e minerali, grazie a un accordo di libero scambio fra i due Paesi entrato in vigore nel 2015. Trump punta a scollegare proprio i fili che uniscono Pechino a Canberra, per riannodarli intorno agli Stati Uniti.

Mentre, per quanto concerne l’Europa, la materia si fa più spinosa: "Abbiamo amici e anche dei nemici che si sono approfittati enormemente di noi da anni su commercio e difesa. Se guardiamo la NATO, la Germania paga l’1% e noi paghiamo il 4,2% di un Pil molto più importante. Questo non è giusto". Anche qui, come da programma elettorale, il presidente-commercialista pretende un’equa ridistribuzione dei denari profferti all’Alleanza Atlantica, tale da non pesare più così tanto sulle casse di stato.

Dunque, mentre gli analisti e gli esperti economici fanno i conti e prospettano questo o quello scenario più o meno apocalittico, all’orizzonte appare chiaro che nel suo quadriennio al potere Donald Trump semplicemente perseguirà - come dovrebbe fare ogni politico che si rispetti - gli impegni presi in campagna elettorale su ogni materia.

Analizzando i capisaldi della ricetta economica trumpiana, si “scopre”, infatti, come per lui il deficit commerciale degli USA si combatta istituendo dazi e tariffe, soprattutto nei confronti di quei paesi, come la Cina, accusati di "rubare agli americani miliardi di dollari di capitali e milioni di posti di lavoro", attraverso politiche di dumping e manipolazioni del tasso di cambio. Potrà non funzionare, ma si chiama coerenza.

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