Ora che le forze della Nato abbandonano il Paese, e i talebani se lo riprendono, migliaia di interpreti che hanno aiutato gli stranieri sono in pericolo di vita perché considerati «infedeli» e collaborazionisti del nemico. E anche fra quelli già portati in salvo in Italia,
diversi vengono accolti in strutture fatiscienti e in condizioni inaccettabili. Un destino immeritato.
«Il boato dell’esplosione è stato fortissimo. I bambini, il più piccolo ha soli 10 mesi, sono scoppiati a piangere. Mia moglie era nel panico. Cento metri più in là i talebani hanno fatto esplodere la prima bomba. Siamo scappati, ma un minuto dopo è saltata in aria la seconda nascosta in una bicicletta» racconta a Panorama Mohammad Ali Safdari, uno degli interpreti dei soldati italiani rimasto indietro in attesa di evacuazione in Italia. Il 20 luglio, nel distretto di Jebreel, alla periferia di Herat, da dove ci siamo ritirati a fine giugno, i talebani che avanzano hanno voluto dare un segnale: «Assieme alle famiglie di altri due interpreti facevamo la spesa per la festa del Sacrificio. L’obiettivo era terrorizzare la gente comune».
Safdari è il «portavoce» di 58 afghani, di varie province, da Herat a Kabul, che sono stati al fianco del nostro contingente come traduttori, nei 20 anni di missione nel paese al crocevia dell’Asia. Una punta dell’iceberg: 228 con le loro famiglie sono già stati portati in salvo in Italia, anche se non tutti accolti come meritano, altri 390 dovrebbero venire evacuati fra agosto e settembre, ma ci sono ulteriori 300 richieste di protezione giunte all’ambasciata a Kabul.
Una grande fuga dei collaboratori degli occidentali che coinvolge tutti i paesi della Nato della lunga missione afghana e rischia di sfiorare numeri da disfatta del Vietnam. Gli americani hanno ricevuto 18.000 domande di protezione, ma l’evacuazione, fra nuove richieste e familiari, potrebbe riguardare 70.000 afghani.
I talebani circondano 16 capoluoghi di provincia su 34 e il 20 luglio l’Isis ha rivendicato il lancio di razzi sul palazzo presidenziale a Kabul. Dall’inizio del ritiro occidentale gli insorti che controllavano 73 distretti ne hanno conquistati 221, oltre la metà del Paese. Altri 170 combattono insidiando tre quarti dell’Afghanistan. Grandi città come Herat, nostro quartier generale per anni, sono a rischio di caduta. «Ogni notte sentiamo i razzi Rpg, i colpi di mortaio e le raffiche. I talebani sono a sette chilometri dalla città. Se arrivano mi tagliano la gola» dice Safdari, che era spalla a spalla con il nostro contingente per sette anni ed è stato ferito a base Tobruk.
Gli interpreti rimasti fuori dalla prima fase dell’operazione Aquila non sanno nulla del loro destino. Per questo hanno preparato accorati video appelli e una lettera indirizzata al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, dell’Interno e degli Esteri oltre ai membri di tutti i partiti nelle commissioni Difesa del Parlamento. Si firmano «un gruppo di traduttori ingiustamente dimenticati e lasciati indietro». Sono andati a manifestare con la bandiera italiana davanti a Camp Arena, la nostra base a Herat, consegnata all’esercito afghano. I talebani «bollano gli interpreti come infedeli» scrivono nella richiesta di aiuto «sostengono che siamo complici (della Nato, ndr) e per questo dobbiamo essere decapitati». All’Italia chiedono «un rifugio per noi e i nostri figli innocenti. Non siamo immigrati, ma richiedenti asilo nel vero senso della parola».
A. H, un altro ex interprete, è fuggito il 19 luglio da Kandahar, la «capitale» del Sud attaccata dai talebani. «Se l’Italia non mi aiuterà sarò costretto a trovare una via illegale per scappare e salvare la mia famiglia. Non è giusto» afferma il giovane afghano. Mohsen Enterzary è un traduttore ferito gravemente durante una missione dei corpi speciali italiani della Task force 45. Abbandonato da anni, vive a Kabul e questa volta spera di essere portato in salvo.
«La Difesa, di concerto con i ministeri dell’Interno e degli Esteri, a conferma del fatto che chi negli anni ha assistito il nostro personale non verrà lasciato solo continuerà a gestire le richieste degli ex collaboratori afghani tramite la rappresentanza italiana a Kabul» assicura a Panorama una fonte di via Venti Settembre.
Fra il mese di agosto e la seconda quindicina di settembre dovrebbero venire evacuate in Italia un’ottantina di famiglie, 390 afghani in tutto. Non solo interpreti ma anche fornitori, collaboratori logistici e personale che ha lavorato nelle nostre basi. Fra i casi prioritari ci sono i familiari del leggendario generale Ziarat Shah Abbed, ucciso dal Covid, che parlava l’italiano e ha comandato il corpo d’armata di Herat. E chi ha collaborato con noi per i diritti delle donne. L’«intendimento dell’autorità politica» di accettare solo le richieste di protezione pervenute entro il 31 maggio «è stato superato» secondo la Difesa.
Il problema è che all’inizio l’operazione Aquila prevedeva di portare in Italia un massimo di 600 afghani, ma all’ambasciata a Kabul sono arrivate altre 300 domande. Le stime più alte di collaboratori e familiari da evacuare sono di 1.200-1.500 persone. Numeri esigui se teniamo conto che dall’inizio dell’anno sono sbarcati in Italia oltre 24.000 migranti illegali. «Quasi sempre sono senza documenti e non abbiamo alcuna informazioni di affidabilità» spiega chi è in prima linea sul fronte dell’immigrazione.
Solo il 7 e 9 luglio sono arrivati in 1.591, la cifra massima prevista da Kabul, compresi i 572 sbarcati da Ocean Viking, la nave della Ong francese Sos Méditerranée. La Germania ha già concesso 2.400 visti di protezione ai collaboratori afghani con le loro famiglie. In giugno gli inglesi avevano evacuato 1.360 persone e prevedevano di ricollocarne altre 3.000.
Non solo i veterani dell’Afghanistan, ma anche i militari sud vietnamiti sopravissuti alla caduta di Saigon del 1975 e che hanno trovato riparo negli Usa sono stati mobilitati per salvare gli afghani. A fine luglio partirà la mega operazione Allies Refuge, che inizialmente evacuerà 18 mila famiglie in basi americane all’estero o Paesi amici per controllare le richieste e farli entrare negli Stati Uniti.
Per i 228 afghani già arrivati in Italia non è tutto rose e fiori. Dopo la quarantena, passano nei Centri di accoglienza straordinaria in attesa di venire assegnati al Sistema di integrazione degli enti locali per due anni. Gran parte sono stati accolti bene, ma diverse famiglie, dal Nord al Sud, denunciano condizioni di vita «inaccettabili, di promiscuità con immigrati illegali che ci deridono, in zone isolate e condizioni indecenti».
A Panorama hanno inviato le foto di alloggi decrepiti, gabinetti da quarto mondo e stanze minuscole. La responsabilità spetta al Viminale, ma «la Difesa è a conoscenza che l’attuale sistemazione presso i Centri di accoglienza straordinaria, per alcuni collaboratori e loro familiari, è una soluzione temporanea». I militari hanno segnalato i problemi chiedendo al ministero dell’Interno di intervenire sui cambi di destinazione.
Il generale Giorgio Battisti, che ha servito in Afghanistan, sottolinea che «le Associazioni combattentistiche e d’Arma, con la loro capillare presenza sul territorio, potranno agevolare l’inserimento di queste famiglie nella nostra società. In particolare, l’Associazione nazionale alpini, la più diffusa e meglio organizzata, quale espressione di solidarietà».
Anche GoodGuys, sodalizio composto da militari dei fronti più caldi, non solo italiani, con oltre mezzo milione di follower su Facebook, è disponibile. «Non sono migranti che arrivano a Lampedusa. Gli afghani erano spalla a spalla con le nostre truppe anche sotto il fuoco. Abbiamo il dovere di aiutarli» afferma il presidente e paracadutista Rocco Pacella. «Per quelli ancora in Afghanistan e gli altri da integrare vale il nostro motto: “Nessuno rimane indietro”».
