Un’organizzazione da manuale per contrastare il Covid sul luogo di lavoro, ma non soltanto lì. La racconta Niccolò Querci, «responsabile delle persone» del gruppo Mediaset. Che in questi mesi ha messo a punto nel privato un sistema di tamponi, vaccini, tracciamento e smart working. Un esempio anche per il settore pubblico.
Oltre 25 mila test diagnostici eseguiti, quasi 9 mila soltanto nel mese di novembre. Tampone obbligatorio ogni sette giorni, il vaccino antinfluenzale e quello anti-polmonite a disposizione di chiunque desideri proteggersi: in 1.500 ne hanno scelto uno oppure entrambi. Più di 600 mila mascherine distribuite, uno smart working organizzato e flessibile, capace di adeguarsi alle curve della pandemia e ai provvedimenti del governo: da 3.800 ingressi giornalieri nelle sedi milanesi in condizioni normali si è scesi a 600 ad aprile, fino a risalire a 1.500 nelle ultime settimane. Gli altri, tutti connessi e operativi da casa, grazie anche a una nuova rete intranet che coordina aggiornamenti e comunicazioni.
Non è la task force di un piccolo comune oltremodo efficiente, ma la sintesi del meccanismo messo a punto da Mediaset per rispondere all’emergenza del coronavirus. «Per una ragione doppia: tutelare la salute dei nostri colleghi e collaboratori e, in parallelo, salvaguardare il diritto dei cittadini di essere informati e intrattenuti in un momento così particolare. Trasmettere, più che una serie di programmi, un messaggio di normalità». A raccontarlo è Niccolò Querci, il responsabile delle persone di tutto il gruppo («non scriva personale o risorse umane, sono termini antichi» si raccomanda). Modi informali, occhi azzurri espressivi, accento toscano inconfondibile, Querci accoglie Panorama a Cologno Monzese, il campus principale di Mediaset, la sua casa da tempo: da una ventina d’anni ne abita stanze e corridoi con numerosi incarichi di prima linea. Ha contribuito a indirizzare la storia della tv italiana dalla cabina di regia, ne ha viste, e risolte, di tutti i colori, mai però avrebbe immaginato la virata degli ultimi mesi, la consuetudine trasformata in emergenza.
Per contenerla, vi siete fatti il vostro Dpcm.
Nessuno aveva uno storico, né parametri o riferimenti. C’era da scrivere una pagina bianca e l’abbiamo riempita con il buon senso. Ci abbiamo ragionato a lungo, di continuo, inventandoci di tutto. Dovevamo alzare di molto l’asticella del nostro lavoro. L’ultimo arrivato è il «drive through».
Ovvero?
Chi avverte sintomi influenzali si presenta in macchina, gli viene somministrato un tampone rapido e uno molecolare all’interno della sua vettura, quindi torna a casa e aspetta il risultato definitivo in isolamento, così non contagia i colleghi. Ma se è positivo lo sappiamo subito e agiamo di conseguenza, tracciando i suoi contatti recenti. Il servizio è a disposizione pure di chi è rimasto in smart working, a tutela dei suoi familiari. A livello pubblico, con tale tempestività, non esiste niente del genere. Poi abbiamo esteso il tampone obbligatorio già previsto per i dipendenti che devono accedere a studi e uffici a tutti i fornitori che si muovono nel campus. Senza, non si entra. Ci siamo dati una disciplina militare.
Ora esagera.
Niente affatto, ci siamo ispirati al Defcon, lo stato d’allarme delle forze armate statunitensi. Ci sembrava una scala efficace: il livello cinque è una condizione ordinaria, l’uno rappresenta la gravità massima, quella in cui tutto si blocca. Ci siamo attrezzati per reagire in maniera proporzionale a qualsiasi scenario.
Sentite il peso del vostro ruolo?
La gente passa molto più tempo davanti alla tv, vuole sapere in tempo reale cosa succede nel mondo. A mio avviso, abbiamo messo insieme un’offerta televisiva seria, ampia, spessa. Senza inutili e controproducenti sensazionalismi.
Tanti sforzi hanno ripagato?
Da qualche centinaio di situazioni sospette siamo scesi a un numero irrisorio. Siamo un’eccellenza, un esempio da seguire per quelle aziende che vogliono mantenere la loro continuità operativa attraverso un investimento equilibrato. Nella nostra è stato semplice: la sua tradizione è quella di un editore che ha sempre avuto come priorità la sicurezza, la protezione e la valorizzazione dei lavoratori. Pier Silvio Berlusconi e tutta la sua famiglia non solo hanno applaudito queste iniziative, ma spingono ad andare oltre, a fare di più.
Qual è stata la risposta dei dipendenti? Hanno gradito o si sono sentiti sott’assedio?
Hanno gradito molto perché hanno trovato in azienda tutto ciò che con difficoltà viene offerto fuori: prevenzione, attenzione, valorizzazione. Mi lasci aggiungere una cosa, però.
Prego.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se non avessi avuto una prima linea di collaboratori veramente eccellenti: da quelli che gestiscono le attività industriali a quanti si occupano di personale, organizzazione, relazioni sindacali e sicurezza. Non farò nomi per non dimenticare nessuno, ma sono davvero professionisti straordinari che si sono meritati una gratifica.
Tanta operosità lascia però un retrogusto. Sottintende che il privato sia stato costretto a sopperire alle mancanze del pubblico.
Le aziende, in generale, hanno fatto tanto. Si sono sforzate di trovare rapidamente delle soluzioni pratiche.
È stata una prova di resistenza e di coraggio per l’economia italiana, nonostante i messaggi contraddittori che arrivavano dalle istituzioni locali e nazionali, da una confusione diffusa che si avverte con chiarezza.
Lei è stato per anni a fianco di Silvio Berlusconi, prima e dopo la sua discesa in campo. Perché ha sentito il bisogno di fare altro, di cambiare vita?
In realtà non penso di averla cambiata. Ero e sono rimasto dietro le quinte. Mi è sempre piaciuto aiutare a far succedere le cose con uno spirito da pater familias, non mi è mai interessato esserne riconosciuto come il titolare. Penso che impegnarsi per gli altri, per una comunità, per tutti e non per uno, significhi sublimare il lavoro. È una soddisfazione impareggiabile. L’ho fatto nei territori della politica, continuo a farlo in Mediaset.
Come, emergenza a parte?
In tanti modi. Anticipando i tempi, istituendo un centro servizi quando il concetto di welfare aziendale era ancora sconosciuto o riservato a pochi imprenditori illuminati. Dovevamo ristrutturare il palazzo qui di fronte, ci siamo presi un piano intero. Al suo interno abbiamo messo un asilo, un ristorante che non è una mensa, una banca, le poste, un gabinetto medico con l’ospedale San Raffaele, una palestra, una lavanderia, un’agenzia viaggi. Ci siamo anche inventati un negozio camaleonte, che cambia ogni settimana i prodotti in vendita e propone sconti ai dipendenti. È un’offerta che piace, funziona, ci viene invidiata altrove. Investire sulle persone, sul loro benessere, è sempre un guadagno.
A livello di collettività, pensa che usciremo cambiati da questa pandemia?
Ci portiamo a casa un’accelerazione del digitale, la possibilità di avanzare con la tecnologia senza sacrificarle la straordinaria forza di una relazione. Ma questa nuova velocità non è un pregio, piuttosto l’ennesimo riflesso del modello ipercinetico di vita nel quale siamo immersi. Mi sembra evidente una nostra generale, congenita incapacità di rallentare. Questa situazione ci ha solo frenati, non vediamo l’ora di riprendere con il ritmo di prima.