È un’invasione da acque lontane. Circa mille specie viventi, tra pesci, vegetali e altro, si stanno insediando nel nostro bacino. Forti, aggressive, prolifiche. E cacciarle via ormai è impossibile.
Una guerra di conquista si consuma sotto la superficie del nostro mare, invisibile agli occhi dei bagnanti. Una massa di pesci, crostacei, alghe di provenienze lontane si sta insediando nel Mediterraneo, e non c’è più modo di invertire la tendenza. Le chiamano «specie aliene», come se provenissero da altri pianeti, e un po’ è così considerando l’impatto sugli ecosistemi marini locali da parte di organismi abituati a ben altri scenari subacquei. Che li ha resi più voraci, velenosi, nefasti, resistenti e prolifici.
Un recente report del Wwf sugli effetti del cambiamento climatico nel Mediterraneo (è noto che le acque si stanno riscaldando e creano un ambiente in cui queste creature possono adattarsi) riassume la situazione. «Sono ormai presenti circa mille specie animali aliene tipiche dei mari tropicali» vi si legge «la cui sopravvivenza e diffusione, soprattutto verso Nord e Ovest del bacino, sono favorite dall’aumento della temperatura media dell’acqua. Alcune specie native stanno anch’esse spostando i propri areali verso nord per seguire le acque più fredde, mentre altre specie endemiche sono state spinte sull’orlo dell’estinzione». Una sostituzione, dunque.
«Sì, nell’intero Mediterraneo abbiamo informazioni per circa mille specie, mentre nel mare italiano sono più di 200. Ma sono cifre sottostimate» conferma a Panorama Piero Genovesi, responsabile del servizio fauna selvatica dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e presidente del Gruppo specialistico per le specie invasive dell’Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura), che è stata la prima organizzazione internazionale ad occuparsi di ambiente. «Ne compaiono di nuove circa una dozzina ogni anno. Ed è un fenomeno in costante crescita».
Su tante specie, qualcuna ha avuto il tempo per diventare preoccupante. Un esempio è il pesce coniglio, originario del Mar Rosso. Si riproduce a ritmo forsennato e nuota in grandi banchi che devastano gli habitat di specie native. Si cibano di alghe e piante marine. Le divorano. Uno studio citato dal report del Wwf e condotto su oltre mille chilometri di costa greca e turca, ha mostrato che «dove i pesci coniglio sono abbondanti, si assiste a una riduzione del 65% di grandi piante marine, una riduzione del 60% delle alghe e altri invertebrati, a una riduzione del 40% del numero totale di specie presenti».
Dal Mar Rosso arriva anche il pesce scorpione, detto anche dragone, o leone, tutti nomi che evocano ferocia e non a caso. È un predatore dalle spine esterne velenosissime (non va assolutamente toccato), famelico e aggressivo con la fauna del nostro bacino. Il primo si è trovato nel 1991 in Israele, ma oggi è in Libano, Cipro, Turchia, Grecia, Tunisia, Siria, Libia e sì, si è visto anche in Italia. Mangia in quantità piccoli pesci e crostacei locali, i quali non hanno avuto modo di sviluppare le difese secondo i tempi di madre natura. E soccombono. Non è un caso se da analisi recenti del contenuto stomacale degli scorpione (parliamo di uno stomaco che può espandersi fino a 30 volte la dimensione originale) si è scoperto che il 95% delle sue prede erano pesci nativi, tra l’altro di importanza ecologica ed economica.
Ma la lista degli alieni è lunga, e ha ripercussioni inattese anche sulle nostre tavole. Come nel caso del pesce palla argenteo, o maculato, sempre più diffuso. Appare come commestibile ma è molto tossico e se dovesse finire nel piatto potrebbe addirittura essere mortale. C’è poi l’arrivo di razze, pesci istrice, pesci flauto, crostacei come il granchio azzurro del Nord Atlantico (che ha infestato le acque del basso Adriatico e ha già fatto scattare più di un allarme in Puglia) o il granchio corridore atlantico, detto anche granchio piatto.
Anche di lumache di mare ne arrivano di ogni colore e denominazione latina. Come la rapana venosa, una grande conchiglia di roccia, predatrice, diventata specie invasiva in molte località di tutto il mondo e anche in Italia. È commestibile: qualcuno, soprattutto sulla riviera romagnola, la lessa e la serve tagliata a fettine. Ma ci sono anche la thecacera pennigera, la berthellina citrina, la favorinus ghanensis trovata a La Spezia oppure la anteaeolidiella lurana, rinvenuta tempo fa mentre strisciava sotto i pontili del porto di Livorno.
Non è un caso che si parli di porti. Il commercio marittimo, espanso all’inverosimile negli ultimi anni, è il primo responsabile di questi ingressi. Gli organismi marini si attaccano alla chiglia delle navi e vengono trasportati da un capo all’altro del globo. Un fenomeno chiamato «fouling», contro il quale si stanno mettendo a punto vernici specifiche. Ma la questione preoccupante è un’altra e ha a che fare con la nostra estate: la diffusione capillare di questi organismi a causa della nautica di tutti i giorni. «Uno studio recente ha analizzato le chiglie di 600 imbarcazioni da diporto in Italia» spiega Genovesi «rilevando come circa il 70% di esse conduceva almeno una specie vegetale aliena». Vettori tra porti lontanissimi, marine locali e calette dove buttare l’àncora e fare il bagno.
Tra le alghe più devastanti trasportate negli anni c’è la caulerpa, originaria del sud dell’Australia ma che oggi ha invaso il Mediterraneo: ne sono ricoperti migliaia di ettari di fondale. È tossica ma, come se fosse una droga, non può fare a meno di cibarsene l’altrimenti carnivoro sarago, uno dei pesci che più troviamo lungo le nostre coste e sulle nostre tavole. Per qualche motivo ancora da dimostrare, questa dieta speciale ne renderebbe la carne talmente dura da risultare immangiabile, un fenomeno chiamato «sarago di gomma».
Ma la caulerpa, con le altre specie aliene, potrebbe essere arrivata anche in un altro modo, che poi è quello più devastante per gli habitat marini: trasportata con «acque di zavorra» delle grandi navi. Succede che dopo avere scaricato le loro merci, portacontainer, cargo e petroliere – divenute più leggere – prelevano dal mare enormi quantità di acqua per riempire speciali serbatoi in modo da ottenere stabilità in navigazione. Quando poi tornano al porto di origine, o quando imbarcano nuove merci, l’acqua viene svuotata. Ma a quel punto in un mare diverso.
Da anni si è raggiunta una convenzione internazionale sulle acque di zavorra che impone di scaricarle in alto mare prima di arrivare nei porti, e riempirle in acque profonde. «Ci è voluto molto tempo per firmarla e diciamo che si sono mossi i primi passi, ma c’è ancora molto da fare, siamo lontani da vedere una applicazione realmente efficace» riflette Genovesi. «Una volta che le specie marine si insediano, molto difficilmente si riesce a contrastarle. Possiamo solo lavorare sulla prevenzione, dunque su convenzioni come questa».
Ma anche su controlli approfonditi quando si importano nuove specie per l’acquacoltura. Alghe, parassiti e altri invertebrati possono viaggiare insieme a pesci o molluschi importati. Ed è l’allevamento stesso a costituire l’espansione della specie aliena, come avviene per una insospettabile protagonista delle nostre tavole. «Gran parte delle vongole veraci che mangiamo sono in realtà ruditapes philippinarum, un nome scientifico da cui si capisce che non hanno esattamente origine nel golfo di Posillipo. Oggi è di gran lunga la specie più allevata in Adriatico e la più consumata in Italia».
E il suo successo è presto detto: rispetto alle italiane, le vongole veraci asiatiche si riproducono di più e sono più resistenti alle variazioni di temperatura nonché agli attacchi dei parassiti. Così hanno finito per soppiantare le nostrane, per quanto più pregiate.
Tra le modalità di ingresso, infine, va da sé che le specie marine possono anche nuotare fino alle nostre coste. E lo fanno soprattutto attraverso il canale di Suez.
Si chiamano «migrazioni lessepsiane», dal nome di Ferdinand de Lesseps, promotore ed esecutore della grande opera, trasformatasi in una scorciatoia tra mondi che mai sarebbero stati in comunicazione tra loro: Mar Rosso e Mediterraneo. Quando fu realizzato il canale, seconda metà dell’Ottocento, un simile travaso di mondi animali non era considerabile. Anche perché non taglia in modo netto il territorio ma attraversa una regione di grandi laghi ad altissima salinità, a cui gli organismi non sopravvivevano. Prima. «A forza di far transitare navi e acqua, la salinità si è abbassata e oggi quella barriera naturale non c’è più» dice Genovesi. «Senza contare il raddoppio del canale avvenuto nel 2015, che lo ha trasformato in una “autostrada”».
La temperatura del Mediterraneo, inoltre, una volta creava un habitat ostile, mentre oggi si sta scaldando di qualche grado, soprattutto in inverno, favorendo le migrazioni. «La situazione è drammatica» commenta Isabella Pratesi, direttrice conservazione del Wwf Italia. «Nel nostro mare già impoverito dalla pesca, inquinato, bersagliato da tanti impatti, la temperatura cresce del 20% più velocemente che altrove, creando un ambiente ideale per le specie aliene. Questo è il mare più invaso del pianeta ed è praticamente impossibile fermare l’ingresso di altre specie o estirparle. Possiamo solo lavorare sulla resilienza del Mediterraneo, possibile grazie alla sua straordinaria ricchezza e biodiversità. Per esempio, si dovrebbe rendere più sostenibile la pesca, aumentare le aree protette, prendersi cura delle praterie di posidonia». Ma il mare per come l’abbiamo conosciuto, non c’è più. servata
