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Le missioni impossibili dei caschi blu

Le missioni impossibili dei caschi blu

Dopo l’attacco al convoglio Onu in cui perse la vita l’ambasciatore Luca Attanasio, inchiesta sul lato oscuro dei contingenti di pace. Travolto da scandali, malversazione, abusi e corruzione, il Palazzo di vetro non può più attendere. E deve rivedere le regole d’ingaggio dei suoi peacekeeper.


Pochi soldi, dotazioni scarse, truppe male addestrate, abusi sessuali. Ecco il lato oscuro delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. Il cui compito nobile di mantenere la pace nelle regioni del mondo piagate dalla guerra spesso non può essere garantito. «La difficoltà sta nella mancanza di un consenso internazionale o nella vaghezza del loro mandato, come si può leggere dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza che le istituiscono» afferma in proposito Mario Giro, già viceministro degli Affari esteri.

«Ciò che manca sono regole d’ingaggio chiare: spesso l’accusa rivolta ai caschi blu è di non intervenire, quando poi intervengono gli Stati si lamentano per l’ingerenza». Ed è così che le forze d’interposizione diventano anche un bersaglio. Dalla prima missione nel secondo dopoguerra, sotto i vessilli Onu sono morti 4.053 soldati: 49 erano italiani, la maggior parte caduti nella Repubblica Democratica del Congo, peraltro negli stessi luoghi dove hanno trovato la morte l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci.

Dall’inizio del 2021, sono già 17 i caduti, un quarto dei quali dovuto a malattie o incidenti sul campo, non ad atti ostili o allo scarso equipaggiamento. Che tuttavia resta una costante delle forze internazionali di pace. Come accadde nel 1995 con il massacro di Srebrenica: «Cosa credi, che non abbiamo sparato? Abbiamo sparato. Ma eravamo 300 militari mandati lì nel ruolo di controllori. Nelle nostre pistole avevamo 10 proiettili in tutto, contro un esercito forte di migliaia di uomini equipaggiatissimi» testimoniò un casco blu olandese di fronte alla strage di musulmani organizzata dalle truppe serbo-bosniache.

Attualmente, sono 100.000 gli uomini che portano i caschi blu. Quasi la metà africani, un terzo viene dal subcontinente indiano. Mentre gli europei rappresentano il 4,5% e gli statunitensi meno dell’1%. Il perché è presto detto: ogni Paese riceve meno di 1.600 dollari al mese per lo stipendio di un «peacekeeper». Ecco spiegato sia il numero esiguo di caschi blu forniti dai ricchi Paesi occidentali, sia l’altissimo numero di contingenti che provengono invece dalle nazioni più povere del mondo.

Il problema è che «quegli stessi Paesi spesso non sono sinonimo di garanzia in termini di qualità e di capacità operativa in teatri così complessi» è l’opinione di Marco Di Liddo, analista del Cesi. «Nonostante ciò, al momento quel modello è l’unico percorribile. Nessun altro tipo di missione a guida nazionale avrebbe una simile autorevolezza politica e un simile certificato di terzietà. Inoltre, pochi Paesi sarebbero in grado di mobilitare numeri di uomini come quelli impiegati in alcuni focolai di conflitto».

Nulla è cambiato dal 1948, quando le Nazioni Unite si trovarono ad affrontare la prima grande sfida: il cessate il fuoco tra Israele e i vicini arabi. Fu quell’evento a inaugurare l’inizio della storia delle missioni di peacekeeping. Delle 72 intraprese, troppe poche hanno portato a una pace duratura: Jugoslavia, Ruanda e Somalia sono i fallimenti più evidenti. Ai quali si potrebbero aggiungere quella tra India e Pakistan: nella missione Unmogip – tuttora in corso – l’Onu schiera appena 117 caschi blu per supervisionare il cessate il fuoco in Kashmir, però costantemente violato.

Vale anche per Minusma in Mali, una delle missioni con più forze sul campo: 15.000 caschi blu. Minusma punta a eradicare il jihadismo dal Sahara e a stabilizzare il governo maliano. Eppure, dal 2014 a oggi la sua presa sulla popolazione si è rivelata inconsistente, mentre dilagano i signori della guerra. La situazione si è fatta talmente ingestibile che la Francia ha dovuto a più riprese intervenire unilateralmente nell’ex colonia per evitare il sorgere di un Califfato islamico tra Timbuctù e le città ribelli di Gao e Kidal.

Non meno complicate la missione congolese (Monusco) e quella per la stabilità del Medio Oriente (Untso), che rappresentano il segno evidente delle difficoltà citate: in Congo operano quasi 20.000 caschi blu, la loro più cospicua presenza in assoluto. Qui l’Onu riversa ogni anno 1,4 miliardi di dollari e tuttavia, anziché diminuire, gli attacchi delle milizie islamiche aumentano così come le violenze dei predoni, che gestiscono il traffico di materie prime.

Forse è anche per questi motivi se oggi sono solo 12 le missioni Onu attive, 10 delle tra Africa (6) e Medio Oriente (4), con un numero sempre più esiguo di soldati schierati. Un’altra ragione è che spesso gli Stati inviano truppe esclusivamente in aree del mondo dove hanno un tornaconto personale, rendendo la pace una questione di mero opportunismo. È il caso degli Usa in Afghanistan, ma soprattutto una costante delle forze d’interposizione africane: come l’Etiopia, presente in Somalia e Sudan, ma solo in funzione della propria sicurezza nazionale.

C’è di peggio. Un’inchiesta indipendente sulla missione in Repubblica Centrafricana (Minusca) – che pure ha visto diminuire gli scontri nel Paese dal 2014 a oggi – ha travolto i caschi blu francesi, accusati di sfruttamento sessuale e abusi sui minori. Qui oggi operano 15.000 soldati, quasi esclusivamente composti da truppe africane; eppure, le accuse di violenza hanno coinvolto numerosi occidentali.

Denunce simili sono emerse anche dalla missione Minustah nell’isola di Haiti, dove i peacekeepers hanno operato dal 2004 al 2017. Qui l’Onu è stata così costretta a rimandare a casa 108 soldati dello Sri Lanka accusati di violenza sessuale nei confronti di minorenni: ma senza sanzioni, solo richiami disciplinari.

Il fenomeno sembra diffuso. Secondo uno studio condotto dalle Università di Birmingham e dell’Ontario, violenze e abusi si sono registrati in almeno altre tre missioni: Mozambico, Bosnia e, ancora, nella Repubblica Democratica del Congo. In totale, sarebbero 265 i bambini nati da stupri commessi dai caschi blu di 13 diverse nazioni, principalmente uruguaiani e brasiliani.

Forse è tempo che al Palazzo di Vetro di New York si rivedano le regole d’ingaggio dei peacekeeper, affinché il Premio Nobel per la pace assegnato loro nel 1988 abbia ancora un senso e un valore.

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