Per ridurre la dipendenza dalla Russia, le aziende del settore chiedono di aumentare le perforazioni. E di evitare la facile ideologia sulle attività di ricerca.
«Ecco, ci vorrebbe un commissario come Francesco Paolo Figliuolo» dice a un certo punto Andrea Ketoff, direttore generale di Assorisorse, associazione che raggruppa società energetiche e minerarie. Solo che in questo caso non bisogna affrontare l’emergenza Covid, ma ridurre il più rapidamente possibile la nostra dipendenza dalle importazioni di gas, materia prima fondamentale per far funzionare le centrali elettriche nella fase di transizione verso una produzione totalmente green. Nel 2021 l’Italia ha consumato 76 miliardi di metri cubi del combustibile, di cui ben 72,7 miliardi importati e appena 3,3 estratti nel nostro Paese. Sul totale del metano importato, il 40% arriva dalla Russia: una percentuale che dopo la guerra in Ucraina è decisamente troppo alta, non possiamo dipendere così tanto da Vladimir Putin. Ma anche il resto delle importazioni non proviene da Paesi molto stabili o affidabili: l’Algeria copre il 29 per cento dell’import, l’Azerbaijan il 10%.
Per anni, cullati dall’idea che avremmo potuto rapidamente fare a meno degli idrocarburi e che estrarre gas e petrolio sui nostri territori non era più accettabile da un punto di vista ambientale, abbiamo bloccato gli investimenti delle compagnie e di conseguenza la produzione è diminuita. Nel 2000 si estraevano in Italia 16,8 miliardi di metri cubi di metano, oggi meno di un quinto. Poi la guerra e la crisi del gas hanno improvvisamente svegliato l’Europa riportandola alla cruda realtà. «La domanda chiave è questa: l’Europa vuole estrarre questa risorsa o continuare a importarla? Perché comunque di metano abbiamo bisogno per produrre elettricità, non possiamo contare solo sulle rinnovabili, almeno per ora. E l’Europa sta sostituendo una dipendenza dalla Russia con quella dagli Stati Uniti» avverte Mathios Rigas, amministratore delegato di Energean.
Nata in Grecia una trentina di anni fa, la Energean ha acquisito a fine 2020 tutti gli asset italiani detenuti da Edison E&P, facendo di Milano la sede tecnica del gruppo con l’obiettivo di sviluppare ed esplorare nuove risorse nelle aree del Mediterraneo e del Mare del Nord. La sua produzione di gas proviene principalmente dai giacimenti in Egitto, Italia, Grecia, Croazia e Regno Unito. Il suo asset principale è rappresentato dai giacimenti al largo di Israele. Quotata a Londra, la compagnia capitalizza 2,5 miliardi di dollari.
«Il problema non è solo in Italia, riguarda tutta Europa» prosegue Rigas. «Io sono greco e il governo di Atene ha commesso gli identici errori di quelli italiani. Negli ultimi cinque anni tutti hanno ascoltato solo l’ambientalista Greta Thunberg ignorando l’importanza della sicurezza energetica. Nessuno ha consultato gli esperti del settore e chi deve fare gli investimenti. In Paesi come Israele ed Egitto, dove noi operiamo, è accaduto l’esatto contrario. Israele consuma 11 miliardi di metri cubi all’anno, ha effettuato pesanti investimenti nella produzione di gas e ora non solo è autosufficiente, ma esporta metano in Egitto. Proprio in questi giorni abbiamo avviato l’esplorazione di un giacimento offshore di fronte alle coste di Israele che dovrebbe contenere 100 miliardi di metri cubi di gas. Metano che potrà essere venduto anche all’Europa. Chi ha consentito nuovi investimenti in questa produzione ora sta beneficiando di prezzi molto bassi. I governi europei devono comprendere che tutti vogliamo andare verso un futuro green, ma questo non può succedere nel giro di un giorno, richiede tempo e nella fase di transizione il gas è essenziale. Smettiamola di raccontare storie al pubblico per prendere voti, bisogna essere responsabili, permettere all’industria di trovare una soluzione al problema della dipendenza dall’estero dell’Italia. Noi insieme all’Eni e agli altri operatori siamo pronti ad aumentare la produzione fin da adesso».
Solo che accrescere l’estrazione non è affatto semplice: per sfruttare di più un giacimento esistente occorre fare investimenti in tecnologia o nuove perforazioni, mentre per trovare altri depositi ci vogliono nuove esplorazioni. Tutte attività fortemente limitate dalla legge e dall’incertezza normativa. In febbraio è stato finalmente pubblicato dal ministero della Transizione ecologica il Pitesai, il «Piano della transizione energetica sostenibile delle aree idonee» che individua le zone in cui è consentito lo svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi. Ci sono voluti anni prima che questo documento vedesse la luce e ora è atterrato in un mondo completamente nuovo. «Il Piano impone molti limiti alle attività di ricerca» ammette Ketoff «e il governo, tenuto conto della situazione di emergenza in cui siamo finiti, dovrebbe correggerlo».
Un altro piccolo operatore che affianca il gigante Eni e l’Energean sul mercato italano è Gas Plus. Guidata da Davide Usberti, la società conta 30 concessioni soprattutto in Emilia-Romagna. Usberti sottolinea l’importanza di valorizzare di più i giacimenti esistenti, rallentandone il declino. «Stiamo riattivando alcuni pozzi. Il problema è con il Pitesai è aumentata l’incertezza, non è chiaro quanto può durare una concessione». «Il Pitesai è stato scritto in un’altra epoca» taglia corto Rigas. «Il suggerimento che darei al governo italiano è molto chiaro: siamo in una situazione di emergenza e occorre prendere misure di conseguenza. Primo: permettere investimenti nei giacimenti esistenti, dove compagnie come la nostra possono aumentare la produzione. Per esempio in quello Vega, che si trova nel Canale di Sicilia, potremmo incrementare di cinque volte l’estrazione di petrolio se ci fossero permesse altre perforazioni. Secondo: consentire di effettuare nuove esplorazioni, altrimenti fra tre anni ci ritroveremo al punto in cui siamo ora».
Ma quanto gas c’è in Italia? «Le riserve certe e probabili» spiega Ketoff «sono intorno ai 92 miliardi di metri cubi, ma è possibile che si possa arrivare anche a 140 miliardi». Secondo Rigas invece non si possono fare previsioni: «È impossibile dire con certezza quanto metano o petrolio ci siano fino a quando non li si va a cercare. Pensi cos’è successo di fronte all’Egitto, dove è stato scoperto il più grande giacimento di metano del Mediterraneo, Zohr. Lì prima c’era la Shell, che se ne andò credendo non ci fosse gas. Poi è arrivata l’Eni, che ha trovato questo tesoro gigantesco, la salvezza economica per l’Egitto. Lo ripeto, nessuno può dire quanti idrocarburi ci siano in un posto fino a quando non si scava un pozzo».
Gli esperti ritengono che in tempi relativamente brevi la produzione nazionale potrebbe salire a circa 5 miliardi di metri cubi all’anno. Ma le aziende devono confrontarsi con un ministero, quello dello Sviluppo economico, dove l’apparato dedicato al settore petrolifero si è molto indebolito. Anche per questo Ketoff invoca l’intervento di un commissario. Più produzione in Italia significa non solo minore dipendenza dall’estero, ma anche più posti di lavoro, più royalty per lo Stato e minore impatto ambientale (navi e gasdotti sono un potenziale pericolo di perdite di greggio e gas). L’alternativa è vedere svanire gli investimenti con la conseguente fuga delle compagnie.
Se la situazione in Italia non cambia, Energean è pronta a fare le valigie. «Non è una minaccia» precisa Rigas «ma la società è quotata a Londra, tra i suoi azionisti ci sono grandi fondi internazionali, e il suo obiettivo è fare utili e distribuire dividendi ai soci. Se in un Paese ci impediscono di fare investimenti, la produzione di petrolio e gas diminuisce. E alla fine siamo costretti ad andarcene».
