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Lovecraft, l’opera cinica di un formidabile genio

Lovecraft, l’opera  cinica di un  formidabile  genio

Il grande autore horror d’inizio Novecento, creatore di indimenticabili mondi da incubo (che ora ispira anche molte serie tv), viene accusato di razzismo e nazismo. Possibile? In realtà era un solitario disilluso, senza fede nell’umanità. E che diffidava del multiculturalismo.


Il 9 ottobre del 1925, Howard Phillips Lovecraft si dedicò a un’attività tra la sue preferite: scrivere lettere. Ne produceva anche 15 al giorno, indirizzate a colleghi, parenti e ai pochi amici. Si potrebbe dire che fossero la sua vera forma di contatto con un mondo esterno che detestava e temeva: non per nulla è conosciuto come «il solitario di Providence», dalla città del Rhode Island dove nacque nel 1890 e morì nel 1937.

In quel giorno del 1925, tuttavia, si trovava a New York, dove trascorse due anni (dal 1924 al 1926) non proprio felici assieme alla moglie Sonia Haft Greene, da cui divorziò abbastanza velocemente. Aveva appena terminato uno dei suoi racconti più famosi, Orrore a Red Hook, e ne volle illustrare il contenuto a Clark Ashton Smith. Gli spiegò che, nell’opera, la magia nera aveva un ruolo importante «in connessione con le bande di giovani sfaticati e le orde di stranieri dall’aspetto malefico che si incontrano dovunque a New York».

In effetti, leggendo il racconto, viene da pensare che l’orrore vero, più che nella magia nera, risieda nei vicoli «putridi» di New York dove si muove l’ispettore Thomas S. Malone, di chiare origini irlandesi e per questo non graditissimo al suo creatore. Lovecraft descrive una popolazione «costituita da una massa di disperati», una mescolanza di «siriani, spagnoli, italiani, negri che si danno fastidio reciprocamente», mentre «un po’ separati dalle altre razze vivono piccoli gruppi di scandinavi e americani». Red Hook è una «babele di rumori e di sudiciume»: un luogo abietto, insomma.

Sono frasi e descrizioni come quelle appena citatee che nei testi di HPL abbondano – ad aver creato lo psicodramma che da qualche tempo domina il mondo letterario americano e non solo. Il problema è il seguente: Lovecraft è forse l’autore che più ha influenzato la produzione letteraria, cinematografica e televisiva dei nostri giorni. Alcuni dei più grandi successi degli ultimi anni, come le serie Stranger things, Dark e persino l’italiana Curon, sono interamente basate su un immaginario lovecraftiano. Senza Lovecraft non avremmo l’orrore puro, abissale e inarrestabile dello scrittore Thomas Ligotti (alle edizioni del Saggiatore l’enorme merito di aver portato al pubblico italiano i suoi capolavori), il quale ha a sua volta ispirato Nick Pizzolatto, romanziere e creatore della serie True detective. Senza Lovecraft, inoltre, non avremmo il Weird, il genere letterario più in voga degli ultimi anni: talenti come Jeff Vandermeer e China Mieville devono tantissimo all’uomo di Providence, e allo stesso bacino stanno attingendo tanti scrittori italiani, con alterne fortune.

Ma ecco il dramma: come possono così tanti e geniali autori suggere linfa vitale da un razzista? Esatto: razzista. Da settimane The Atlantic, New York Times e decine di altre testate statunitensi stanno cimentandosi con l’aggrovigliato dilemma. Si sprecano citazioni dalle lettere di Lovecraft, brani truci estratti dai suoi racconti. C’è chi tira in ballo perfino un presunto apprezzamento per Adolf Hitler. Del Fuhrer, è vero, HPL si occupa spesso nella sua corrispondenza. Ma è in una lettera a J. Vernon Shea del 1933 che si chiarisce meglio quale sia la sua posizione in proposito. Lovecraft deplora i roghi dei libri, non ama la violenza nazista, descrive Hitler come un fanatico nevrotico. Però preferisce la barbarie nazista a quella bolscevica. Pensa che il nazismo – con tutti i suoi orrori – potrà risvegliare «lo spirito tradizionale germanico». Da qui a definire HPL un nazista, ce ne passa.

Tuttavia la paranoia razzista contemporanea non risparmia nessuno, e Lovecraft ha tutte le caratteristiche per finire nel tritacarne. Anzi, a dirla tutta sono almeno dieci anni che il nostro viene allegramente macinato. Nel 2010, uno dei più importanti premi letterari «di genere» del mondo, il World Fantasy Award, fu vinto dalla nigeriana Nnedi Okorafor. Poiché tale premio era stato fondato nel 1975 proprio a Providence, al vincitore veniva consegnata una statuetta con il volto del vecchio Howard Phillips. La Okorafor la ritirò volentieri, salvo poi scoprire una poesiola che HPL scrisse nel 1912: On the creation of niggers. La reazione dell’autrice fu molto elegante: «Ho in casa la statuetta con la testa di un razzista» scrisse. «La statuetta di questo razzista è uno dei più grandi riconoscimenti che abbia ottenuto come scrittrice». Risultato, nel 2016 i responsabili del World Fantasy Award cambiarono la statuetta: via la testa del creatore di Cthulhu, largo all’immagine di un albero che si allunga verso la luna.

Dall’episodio della Okorafor sono passati dieci anni, ma ora le polveri si sono infuocate di nuovo. George RR Martin, il creatore del Trono di Spade, è stato accusato di razzismo per aver soltanto osato citare Lovecraft durante la cerimonia di consegna del premio Hugo 2020, alto riconoscimento per la narrativa fantasy e di fantascienza. Poi c’è la polemica innescata dall’uscita di Lovecraft Country, serie televisiva ideata per Hbo, a partire dall’omonimo romanzo di Matt Ruff, da J.J. Abrahams e Jordan Peele, due signori che all’innegabile bravura uniscono una bella dose di furbizia. Non per niente cavalcano da un po’ l’onda dell’antirazzismo in stile «Black Lives Matter», e la loro ultima trovata va a battere proprio lì.

Si tratta di una stravagante operazione a metà tra la vendetta e il risarcimento. In buona sostanza, Lovecraft Country (il cui primo episodio è andato in onda il 16 di agosto negli Usa e in autunno arriverà doppiato su Sky) porta alcuni protagonisti neri in un universo – appunto – lovecraftiano, dove a mostri antichi e orrori cosmici si aggiungono feroci bianchi razzisti. Va detto che il tentativo pare ben riuscito sul versante horror, un po’ meno su quello razziale: persino alcuni commentatori liberal hanno trovato troppo caricaturali i cattivoni visi pallidi. Cose che succedono quando ci si fa prendere dalla furia iconoclasta e si osserva la grande arte attraverso il filtro del moralismo.

Il fatto è che Lovecraft ebbe senz’altro derive razziste, ma non gli derivavano certo dal suo tradizionalismo o, peggio, da chissà quali simpatie nazistoidi. Piuttosto, le sue tirate assurde sull’inferiorità «dei negri» nascevano del suo razionalismo glaciale. Benché inventore di mondi alieni, di mostri abominevoli e di un complesso pensiero esoterico, HPL fu uno scettico radicale.

Sempre nel 1925, spiegò di non avere «neppure una scheggia di fiducia in qualsiasi forma di supernaturalismo, religione, spiritualismo, trascendentalismo, metempsicosi o immortalità». Per certi versi era un positivista, un ateo di granito. Ed è facile che la sua visione spaventosa del mondo origini proprio da questo pessimismo totale. Come ha scritto Michel Houellebecq, Lovecraft era «contro il mondo, contro la vita». Non odiava «i diversi»: al massimo disprezzava tutti. Il suo punto di vista, ha notato Gianni Pilo, è «cosmico», totalmente indifferente verso «quell’incidente banale che è la vita organica, uomo compreso».

A questa implacabile freddezza nei confronti degli esseri umani si accompagna, quello sì, un disgusto profondo per il multiculturalismo. Lovecraft, orfano di padre, era stato cresciuto dai libri, viveva fuori dal suo tempo, nell’età vittoriana. Era il guazzabuglio di etnie della caotica New York a meritarsi il suo aristocratico disprezzo, ma non significa che fosse un suprematista o un fanatico ariano, non per nulla sposò una ebrea ucraina.

Liquidarlo come razzista è inutile e anche ingiusto. Era solo, come scrisse, «stanco dell’umanità e del mondo». Eppure, al mondo ha donato tutto il suo genio, vasto come lo spazio senza fine.

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