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D’Annunzio, Debussy e quel magico flop del San Sebastiano

D’Annunzio, Debussy e quel magico flop del San Sebastiano

Dal sodalizio tra il grande poeta e il celebre compositore, entrambi spiriti eletti e cultori dei «misteri», nacque un dramma teatrale affascinante e scandaloso, protagonista un santo femminilizzato. Fu un clamoroso fiasco. Ma i due restarono per sempre fratelli.


«Caro maestro e amico, all’inaugurazione del monumento del vostro caro Claude, i vostri nomi sono apparsi indissolubilmente legati. Dopo, da ogni parte mi è stato chiesto se non avessi una vostra corrispondenza. […] Spesso ho riletto le vostre preziose lettere che mi hanno riportato a quei begli anni, teneri e duri a un tempo. Consentireste a far copiare le pagine del fratello Claude di Francia e a darmi l’autorizzazione a pubblicarle a fronte delle vostre?». A scrivere queste parole, in una lettera indirizzata al Vittoriale il 20 novembre del 1932, è Emma Debussy, la moglie di quello straordinario musicista che fu Achille-Claude Debussy. Il grande autore, nato nel 1862, era morto il 25 marzo del 1918. Gabriele D’Annunzio, che aveva appena un anno meno di lui, avrebbe concluso nel marzo del 1938 una vita costellata di infiniti incontri, strabilianti prodezze e meritati onori.

Tuttavia, pur nell’immenso turbinio che fu la sua esistenza, sembra che al Vate fossero rimasti nel cuore i giorni lontani in cui conobbe Debussy e strinse con lui un sodalizio profondo, anche se non fortunato. Un legame la cui forza si evince sfogliando il corpus di 60 lettere che il poeta scambiò con il maestro e i suoi famigliari (la moglie e la figlia Chouchou), pubblicato dall’editore Passigli in un bel volume dal titolo Mon cher ami: epistolario 1910-1917, di cui è appena uscita una nuova edizione dopo 27 anni.
Nella sua spumeggiante biografia del Vate, Piero Chiara racconta che D’Annunzio, nel 1910, «viaggiando sotto lo pseudonimo di Guy d’Arbres, arrivò […] allo chalet Saint-Dominique, vicino al Moulleau e a cinque chilometri da Arcachon, nota località turistica e rifugio di tubercolotici sul golfo di Biscaglia». Il poeta, assediato dai creditori, si era rifugiato in Francia, dove la sua influenza sul bel mondo letterario non era sbiadita, e dove non gli mancavano le dolci compagnie. Tra le ultime conquiste c’era la pittrice americana Romaine Brooks, che avrà un ruolo non secondario nella storia che andiamo a raccontare. Come non mancò di documentare il Corriere della Sera, sempre attento nel seguire le peripezie dannunziane, Gabriele era impegnato nella stesura di un ambizioso dramma, Le Martyre de Saint Sébastien, un «mistero in cinque atti».

L’ispirazione per scriverlo gliel’aveva fornita Ida Rubinstein, ballerina russa al tempo celebrata come una diva. L’aveva conosciuta al termine di una première, raggiungendola in camerino assieme a Maurice Barrès ed Edmond Rostand, e subito aveva inscenato uno spettacolo dei suoi: «Con la solita temerità» raccontò poi il Vate «vedendo da vicino le meravigliose gambe nude, mi getto a terra – senza sentire su me l’abito a coda di rondine – e bacio i piedi, salgo su pel fasolo fino alle ginocchia, e su per la coscia, fino all’inguine, con il labbro agile e fuggevole dell’aulete che scorre il doppio flauto. Tableau! Scandalo!».

Se era un tentativo di seduzione, non andò a buon fine. La Rubinstein era lesbica, e si sarebbe in seguito accompagnata con Romaine Brooks. Ma D’Annunzio diede seguito alla sua folgorazione: aveva trovato, in quella figura androgina e conturbante, il suo San Sebastiano. Da ballerina che era, ne fece un’attrice e modellò su di lei il suo personaggio. Androgino lo voleva, e non per caso. Il dramma che Gabriele andava scrivendo, infatti, era davvero un «mistero», nel senso che l’opera completa risultò un arazzo composto di tanti fili esoterici. Un capolavoro intriso di paganesimo, di suggestioni alchemiche, di segnali che solo gli iniziati potevano cogliere. E chi avrebbe potuto mettere in musica una simile selva di simboli? Solo un altro iniziato, un esploratore dei «misteri» come Claude Debussy.

Sulle frequentazioni occulte del musicista ha scritto uno splendido libro Alessandro Nardin (Debussy l’esoterista, Jouvence), ricco di informazioni e affascinante, che ricostruisce il cammino segreto dell’immortale francese. Assieme all’amico Erik Satie, Debussy frequentava la libreria di Edmond Bailly, punto di riferimento dell’esoterismo parigino. Nel retrobottega i due geni affinavano le loro composizioni e venivano introdotti alle arti segrete. Debussy lesse i libri magici di Eliphas Levi, e fu assiduo frequentatore dell’ordine dei Rosa Croce, riportato in vita nel 1887 da Stanislas De Guaita, Gerard Encasse (noto nell’ambiente occultistico come Papus) e Joséphin Péladan. I rosicruciani francesi, dopo non molto tempo, si divisero in due fazioni: cabalisti da una parte, cristiani dall’altra, De Guaita e Papus contro Péladan. Debussy continuò con discrezione a frequentare entrambi.

Non fu, come per molti in quegli anni, un interesse dettato dal revival esoterico, dalla moda. Fu una ricerca seria, che influenzò notevolmente l’arte del riservato Achille-Claude. Se per gli adepti della scienza ermetica la musica è il linguaggio universale e primordiale del mondo, lo stesso era per Debussy. Egli non creava, semmai scopriva, trovava le note laddove già esistevano, sollevando il velo d’illusione che cela la realtà a cui si giunge solo tramite la conoscenza, cioè la gnosi.

Di tale sapienza, il maestro aveva trovato tracce nell’opera dannunziana, e quando, nel 1910, ricevette la prima lettera del Vate si lasciò conquistare. «Caro Maestro, un giorno lontano sulla collina di Settignano dove è nato il più melodioso degli scultori toscani, Gabriel Mourey mi parlò di voi e di Tristano con accenti profondi» gli scrisse D’Annunzio. «Vi conoscevo e vi amavo già allora. Frequentavo un piccolo cenacolo fiorentino dove qualche artista serio professava un vero culto per la vostra opera e si appassionava alla vostra “riforma”. Allora come oggi, soffrivo di non poter scrivere la musica delle mie tragedie. E pensavo alla possibilità di incontrarvi». Così iniziò tutto.

Seguirono mesi di lavoro intenso, l’opera che ne scaturì fu qualcosa d’impressionante. D’Annunzio aveva coinvolto Gabriel Astruc, abile impresario parigino, e del San Sebastiano si iniziò a discutere nei salotti ancor prima che fosse pronto. Una bella dose di pubblicità contribuì a fornirla gratuitamente la Chiesa. A poco servì la dedica dannunziana al devoto cattolico Maurice Barrès: l’8 maggio del 1911, grazie al cardinale Della Volpe, tutta l’opera del Vate (poesie escluse) fu condannata dall’Indice.

L’arcivescovo di Parigi, Amette, aggiunse al novero dei capolavori proibiti anche il San Sebastiano, benché ancora inedito. D’Annunzio infiammò la polemica sui giornali, e l’attesa crebbe. Mentre l’appetito mondano si saziava di polemica, i due autori non trascuravano la ricerca dei «misteri». D’Annunzio, che sempre si professò cattolico, nel suo Libro segreto lasciò trapelare, come ricorda Nardin, il suo volto esoterico. E a proposito del rapporto con Debussy parlò di «alleanza spirituale suggellata dalle prime note». I due iniziati percorrevano insieme il sentiero.

Il 22 maggio del 1911, il dramma arrivò sul palcoscenico. Il Sebastiano femminilizzato (un androgino alchemico) interpretato dalla Rubinstein suscitò scandalo e morboso interesse, le scenografie piacquero, ma la musica e il testo scontentarono molti. Troppa attesa, troppo clamore: aspettative deluse. Marcel Proust, che era tra il pubblico, fu spietato: «Ho trovato l’opera molto noiosa, nonostante alcuni momenti, e la musica piacevole ma esile, insufficiente, schiacciata dallo stile. […] È un fiasco terribile per il poeta e per il musicista». A Jean Cocteau – attento conoscitore di cose occulte – invece piacque. Ma, come ricordò Piero Chiara, tutta la magia del mondo non fu sufficiente. I due autori, spiriti eletti, rimasero per sempre fratelli. Ma il loro dramma alla prima incassò 36.000 franchi, e ne era costato 37.000. Dieci repliche, e fu tutto finito.

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