Il ministro per l’Innovazione tecnologica si è fatto sfuggire gli investimenti produttivi di un gigante americano dei microchip, che ha privilegiato altri Paesi europei rispetto all’Italia. E la stessa poca lungimiranza si è vista anche nella rinuncia al Cloud nazionale, la «Nuvola» che andrà a custodire i dati della pubblica amministrazione.
La transizione ecologica l’ha sistemata, almeno per un po’, Vladimir Putin. A quella digitale, invece, pensa Vittorio Colao, 60 anni, bresciano di nascita ma di famiglia calabrese, un tipo che appena può salta sulla bici da corsa e si fa anche 100 chilometri in un giorno. Da capo di Vodafone, dieci anni fa, guadagnava 12 milioni di euro l’anno e gestiva un colosso che oggi in Borsa vale 43 miliardi. Ora, da ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale, si deve accontentare di 9.200 euro al mese, ma ha per le mani 11 miliardi di euro di fondi europei per far ripartire la nazione a suon di 5G, banda ultralarga sul fisso, Cloud nazionale. Reti e servizi che dovrebbero consentire agli italiani non solo di lavorare meglio da casa e ovunque si trovino, ma di avere finalmente a che fare con una pubblica amministrazione digitale, ossia più efficienza e trasparenza.
Questo 2022, però, non è iniziato male solo per Greta Thunberg e Roberto Cingolani. Dopo mesi e mesi di trattative, il gigante americano Intel ha beffato l’Italia e non metterà da noi il centro di ricerca e sviluppo per i nuovi microprocessori. Mentre la cosiddetta gara per il Cloud nazionale, che ha già il nome del vincitore in controluce, rischia di relegare l’Italia per i prossimi tre lustri al ruolo di semplice compratore di tecnologie digitali (in gran parte straniere, peraltro).
Non è un mistero che se Mario Draghi fosse stato eletto presidente della Repubblica, Colao sarebbe stato il suo asso nella manica per la successione a Palazzo Chigi. Rapido e concreto, a suo agio con l’inglese e con i numeri dei business plan, come tutti coloro che si sono formati alla scuola dell’alta consulenza di McKinsey. Ma soprattutto, uno che in 13 mesi di «governo dei migliori» non si è mai impuntato su nulla e ha sempre camminato sulla strada tracciata da Draghi e dal ministro dell’Economia, Daniele Franco. Insomma, l’obbedienza fatta ministro, oltre a un’apprezzabile capacità di star lontano dalle polemiche.
L’altra faccia di queste medaglie, paradossalmente, si vede sulla delega meno pesante che ha il suo ministero, ovvero l’aerospazio. Qui, dove servono capacità politiche e visione di lungo periodo, Colao ha preferito delegare quasi tutto all’Europa e federarsi alla Francia, non senza un bizzarro proclama alla Cingolani: «Lo spazio per l’Italia può diventare la nuova Moda» (16 dicembre 2021). E così, sui 2,4 miliardi previsti dal Pnrr, ne ha girati direttamente 1,3 all’Esa (Ente spaziale europeo) curandosi solo di agevolare le commesse per le aziende italiane. In sostanza, si è dimostrato un abile «commerciale», ma nulla più.
Dove servivano capacità negoziali e più politiche, il manager bresciano è andato in difficoltà. Il suo buon amico Pat Gelsinger, amministratore delegato di Intel, dopo mesi di abile girovagare per l’Europa a caccia delle condizioni migliori, il 14 marzo gli ha rifilato una grande delusione. Degli 80 miliardi che la multinazionale Usa intende investire in Europa nel prossimo decennio, in Italia ne arriveranno solo 4,5 per il «packaging» dei microchip, con la creazione di 1.500 posti di lavoro diretti (più, forse, altri 3.500 nell’indotto). Per capire le dimensioni della sconfitta, in Germania saranno investiti 17 miliardi per due fabbriche vicino a Magdeburgo, in Irlanda finiranno 12 miliardi per uno stabilimento da ristrutturare completamente, mentre il cervello della produzione di Intel in Europa sarà in Francia.
Così Parigi, dopo l’auto, ha soffiato all’Italia, e a Torino in particolare, anche la ricerca e lo sviluppo dei nuovi microprocessori. Il risultato è stato che Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico che già aveva preferito Termoli a Mirafiori per la futura fabbrica di batterie di Stellantis, si è infuriato con Colao e ora sta cercando di deviare quante più risorse pubbliche su StMicroelectronics, joint venture italo-francese.
Le capacità manageriali di Colao nel rispettare i tempi e far girare i soldi si stanno invece vedendo nella vicenda del Cloud nazionale per la custodia dei dati delle pubbliche amministrazioni. La scorsa settimana si sono fatte avanti ufficialmente due cordate e in ballo ci sono 723 milioni di fondi pubblici. Il primo consorzio è costituito da tre soggetti pubblici come Leonardo, Cassa depositi e prestiti e Sogei, insieme agli indebitatissimi privati di Telecom Italia (22 miliardi di euro al 31 dicembre), anch’essi a loro volta partecipati dalla Cdp (secondo azionista con il 9,8 per cento) e impantanati da anni nella delicata partita della Rete unica per il 5G. I cosiddetti sfidanti sono Fastweb e Aruba, il che consente di parlare di «gara», anche se sono rimaste fuori dalla partita altre due cordate con in testa Amazon e Fastweb, che si stavano alleando rispettivamente con Fincantieri e Poligrafico. Ma i due possibili soci pubblici, lo scorso autunno, si sono sfilati per volontà del Mef e del suo ministro Daniele Franco. Colao non ha battuto ciglio.
Del resto, un’altra singolarità di questa procedura è che lo schema proposto dal consorzio Leonardo-Telecom è stato già selezionato come «proposta di riferimento ai fini della gara» (Corriere della Sera, 22 marzo) e prevede l’affidamento dei lavori di progettazione, realizzazione e gestione dell’infrastruttura attraverso un contratto di partenariato pubblico-privato. Nei piani del ministro Colao c’è l’inizio della migrazione dei dati nella seconda parte di quest’anno e la conclusione entro il 2026.
Al netto delle possibili azioni giudiziarie su un’architettura di gara così singolare, il dato sostanziale della scelta del terzetto Draghi-Franco-Colao è che con i fondi del Pnrr si sarebbe potuto costituire e gestire la Nuvola nazionale «in house» a costi minori e provando finalmente a favorire la crescita delle imprese italiane. Il tutto, per altro, in una fase storica in cui, dopo l’invasione dell’Ucraina, si torna a parlare non solo di autonomia energetica, ma anche di sovranità digitale.
Invece, senza alcun dibattito politico, l’Italia ha scelto di ritagliarsi per ben 13 anni il ruolo di mero compratore di tecnologia. Tecnologia in gran parte americana, visto che le varie Oracle, Google e Microsoft sono già state scelte come fornitori dalla cordata Leonardo-Tim.
Poi, per carità, si tratta certo di una scelta di campo più corretta che affidarsi in massa agli antivirus russi di Kaspersky, come hanno fatto negli anni scorsi decine di pubbliche amministrazioni. Ma forse, rinunciare a «fare lo Stato» in una partita come quella della Nuvola non è lungimirante. Del resto, se si pescano i ministri dalle compagnie telefoniche, comprensibilmente l’attenzione andrà tutta sui risultati commerciali a breve. Che però servono a distribuire più dividendi possibili agli azionisti, non a rilanciare una nazione nel medio e lungo periodo. n
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