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Economia

Pensioni d'oro dei sindacalisti: la fine dei privilegi

Una circolare dell'Inps ha appena recepito la sentenza della Corte dei conti contro i trattamenti di favore. Ecco cosa accadrà

È accettabile che un sindacalista vada in pensione con un assegno basato in larga parte su uno stipendio di 8 mila euro al mese, anche se lo ha percepito solo per gli ultimi due mesi di lavoro? La Corte dei conti ha detto di no e l’Inps si appresta a trarne le conseguenze. Lo ha annunciato il presidente dell’Ente previdenziale Tito Boeri, assicurando in un’intervista a Repubblica di avere già pronta la circolare che estirperà la mala pianta dei privilegi pensionistici dei sindacalisti italiani.

Risulta in effetti dalle verifiche di Panorama che un provvedimento ad hoc è all’esame dell’ufficio legislativo del Ministero del Lavoro, ma è bene sgomberare il campo da equivoci: anche se venisse attuato domattina non riguarderebbe le centinaia i sindacalisti che già si godono assegni più generosi dei loro rappresentati, ma solo quelli che andranno in pensione da adesso in poi. A renderlo possibile e forse inevitabile è la sentenza con cui la Corte dei conti ha bocciato il ricorso del coordinatore della Gilda insegnanti Gennaro Di Meglio contro l’Inps, condannando con ciò un sistema di privilegi che va avanti indisturbato da più vent’anni.

Quel che ha fatto scattare la svolta della Corte è un caso estremo ma non è certo isolato: nel 2014 l’Inps ha conteggiato ben 581 sindacalisti del pubblico impiego in pensione che godevano trattamenti della stessa natura di quello chiesto da Di Meglio, e una recente ricognizione a campione dell’Ente previdenziale ha calcolato che senza l’aiutino del calcolo privilegiato dovrebbero essere ridotte mediamente di circa il 27 per cento.

In base a quale legge i sindacalisti di cui sopra sono stati baciati dalla fortuna? Non una sola, ma almeno tre leggi distinte. Tutto comincia con l’introduzione del sistema contributivo (pensione basata solo sui contributi) al posto del retributivo (pensione calcolata sullo stipendio degli ultimi anni) decisa nel 1992, che per ridurre l’impatto consentì di mantenere il vecchio sistema per i contributi versati prima del 31 dicembre di quell’anno. Nel 1995 la legge Dini offrì a tutti la possibilità di rimpolpare la pensione con versamenti ulteriori, e per non dilatare il privilegio già ottenuto dagli «anziani» stabilì che quanto aggiunto finisse nella quota calcolata con il meno vantaggioso contributivo. A queste due leggi se ne aggiunse una terza, quella voluta nel ’96 dall’allora ministro del Lavoro Tiziano Treu, che consentì ai sindacati di incrementare, sempre con versamenti aggiuntivi, le pensioni dei loro dirigenti in aspettativa o in distacco sindacale dalle rispettive aziende.

È qui che si crea il corto circuito, perché le circolari applicative consentono inspiegabilmente di conteggiare questi versamenti aggiuntivi dei sindacati non con il sistema contributivo, come per tutti gli italiani, ma con il retributivo, che per il settore pubblico gode di un trattamento davvero speciale, essendo basato addirittura sull’ultimo giorno di lavoro.

L’effetto, è che basta una retribuzione molto elevata negli ultimi mesi per portare a casa un aumento abnorme della pensione, naturalmente a spese dell’ente previdenziale, ossia degli altri contribuenti. A suo tempo fece scalpore la pensione dell’ex segretario della Cisl Raffaele Bonanni, ma nel suo caso il trattamento era almeno sostenuto dai contributi (commisurati allo stipendio) che il sindacato gli aveva versato per molti anni. Qui ci troviamo di fronte a un esercito di sindacalisti semi sconosciuti la cui pensione super arriva grazie a contributi versati per periodi decisamente più brevi.

Panorama ha individuato tre casi, uno per ciascuna delle confederazioni maggiori, che si riportano a puro titolo di esempio, visto che si tratta di una condizione generalizzata: un segretario dello Spi Cgil titolare di una pensione che senza il calcolo privilegiato sarebbe più bassa del 25 per cento; un ex componente della direzione nazionale della Uil Fpl che avrebbe un ribasso del 24 per cento; un esponente della segreteria territoriale della Fnp Cisl dell’Emilia centrale il cui vantaggio equivale al 22 per cento.

I loro casi riguardano comunque il passato, ossia le pensioni già erogate e ormai impossibili da toccare. Per quelli ancora in attività con le stesse caratteristiche (1.400 secondo il presidente dell’Inps), la musica dovrebbe cambiare. La Corte dei conti ha infatti osservato nella sentenza di cui sopra che al lavoro svolto dal sindacalista Di Meglio mancavano i criteri della fissità e della continuità, stabiliti come necessari per poter conteggiare i versamenti con il criterio retributivo, per cui degli 8 mila di retribuzione ne ha calcolati «solo» 5 mila.

Ed ecco la svolta. Come può considerarsi fisso e continuo un incarico sindacale revocabile per definizione? Solo grazie a questa scoperta applicabile (dopo oltre vent’anni!) alle pensioni di tutti i sindacalisti, la Corte ha respinto la richiesta di superpensione, regalando all’Inps un piccolo ma sacrosanto risparmio. Che d’ora in poi dovrebbe diventare la regola per tutti i sindacalisti italiani.

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Stefano Caviglia