Alessandro Perissinotto: "Il premio Strega 2013 l'ho già vinto io"
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Alessandro Perissinotto: "Il premio Strega 2013 l'ho già vinto io"

Non arriva a rimpiangere le Br, ma la ribellione sì. E in questa intervista rincara la dose

È un fondista della scrittura Alessandro Perissinotto, sarà per quel cognome che non finisce mai, 12 lettere con la musica dentro. Ogni volta che ha l’uzzolo di scrivere un romanzo si dà una tabella di marcia da stakanovista della creatività. E non sgarra: nelle vacanze di Pasqua butta giù la scaletta, nei successivi weekend raccoglie materiali d’archivio, studia, scatta almeno 400 foto dei luoghi scenario e quando arrivano le vacanze estive si ritira in una casa in una vallata piemontese dimenticata da Dio e dagli uomini. A quel punto comincia la sua marcia da fondista: davanti al computer dalle 9 del mattino alle 14; mezz’ora di pausa e poi di nuovo a inventarsi mondi fino alle 10 di sera.

La scorsa estate ha cercato parole per guardare in faccia le Brigate rosse, è entrato nelle fabbriche degli anni Settanta e in una di oggi seguendo assonanze sociali, politiche, e coincidenze di scenari. Tanto che Le colpe dei padri, il suo undicesimo romanzo, è destinato a far molto parlare, comunque vada la sua corsa al premio Strega, per il quale è stato candidato dall’editore Piemme.

Materia incandescente: cosa l’ha attratta?
Mi sembra di assistere alle stesse battaglie, di rivedere dinamiche sociali simili. L’identica paura. Ma con un senso di oppressione maggiore, perché un conto è conquistare certi diritti per la prima volta, altro è accorgersi di doverli riconquistare. Il lavoro, l’assistenza sanitaria, una dimensione umana, la dignità: ho letto articoli sui suicidi legati al lavoro, uno dopo l’altro…

I conti con quegli anni violenti sono ancora aperti.
Perché non sono ancora diventati storia. E quello che è più scioccante è che, se uno non li ha vissuti, non sa cosa sia successo. La scorsa settimana ho avuto la conferma domandando ai miei studenti cosa sapessero. Nulla. Come se quegli anni non avessero lasciato nella memoria collettiva alcuna traccia.

Nel suo romanzo usa il tema del doppio. Il protagonista si misura con un altro sé. È stato un espediente narrativo o voleva dirci che il nostro presente è uguale a quel passato che sfociò nella lotta armata?
Il doppio mi ha sempre affascinato, pensi al Sosia di Fëdor Dostoevskij. Mi chiedo: un manager che per fare risparmiare 1 milione di euro l’anno licenzia 300 persone, è lui o il sosia? Sono convinto che sia lui ma mi piace immaginare che sia il doppio.

Guido, il suo protagonista, è esattamente un manager disposto a tutto. A quasi tutto...
Un personaggio così era già plausibile negli anni Settanta, i tagliateste non sono prodotti del neoliberismo. Ho studiato da perito: a quei tempi era il massimo che si poteva permettere una famiglia come la mia, proletaria, di piccoli impiegati. Ci portavano in visita alla Fiat e noi sentivamo l’ostilità degli operai che ci vivevano come nemici perché l’azienda aveva bisogno di dipendenti specializzati; si andava verso un’automazione spinta. Era già scontro generazionale, rottura della solidarietà. Proprio come oggi.

Le colpe dei padri è un pendolo fra le due Italie separate da 40 anni. Qual è meglio?
Forse quella di allora, perché in linea di principio si impegnava a garantire più diritti a più persone. L’instabilità e la deregulation sono state talmente inculcate ai giovani da essere scontate. Non lottano.

"In quegli anni si uccideva per la politica e si era uccisi. E ora?" scrive. E altrove si legge: "Ci vorrebbero le Br".
Faccio riferimento a un senso diffuso di impotenza: la deriva armata è arrivata per il fallimento della partecipazione democratica. Oggi c’è chi sostiene che non serva a nulla. Ecco l’humus di una nuova rivolta armata.

Si riferisce ai grillini?
A me preoccupa la confusione fra regole democratiche e regole partitocratiche. Una parola che mi irrita è "inciucio" utilizzato per qualsiasi tipo d’accordo. Invece è normale e sano che, in una società con opinioni diverse, si tenti la conciliazione. Rifiutare l’accordo è un retaggio vecchio. E un escamotage per affermare che solo l’autoritarismo è strumento di governo. I grillini sono una forma nuova di rinuncia alla democrazia. "Voglio il 100 per cento" ha detto Beppe Grillo.

Il capo del suo protagonista assomiglia molto a Sergio Marchionne. È un caso?
Non solo a lui, tanto che ho citato anche Vittorio Valletta (dirigente Fiat negli anni caldi, ndr). E mi sono rifatto ai manager della France Télécom messi sotto inchiesta dopo i 60 suicidi di dipendenti. Casi di demansionamento, spersonalizzazione del lavoro, pressioni…

Ma non è un po’ troppo partigiano? I cattivi di qua, i buoni di là. È un soffio arrivare a legittimare certi comportamenti violenti.
Non siamo ancora in zona rischio. Potremmo entrarci a breve perché, rispetto al passato, il crinale è molto più sottile.

Il suo giudizio sulle Br, allora.
La valutazione storica e morale è negativa. È inutile tentare qualsiasi giustificazione a posteriori. Quello che cerco di raccontare è che fu una risposta all’arroganza del potere, all’impotenza nel portare avanti un confronto democratico. Oggi ci sono i toga-party, le feste di Batman, l’arroganza dell’economia, Flavio Briatore. Soffro la scomparsa dai programmi politico sociali della parola "progresso".

Che significa?
Per me progresso è allargamento dei diritti a più persone. E una qualità della vita migliore.

Cosa pensa di Papa Francesco?
Dalla sua ha il vantaggio di arrivare in un’epoca priva di ideologie. Il fatto che la prima sua causa di beatificazione sia un sacerdote della teologia della liberazione vuol dire molto.

Ci aiuti a capire...
Anche per la Chiesa è arrivato il tempo di parlare di poveri senza avere paura. Di applaudire ai preti da strada, ai preti operai. In passato la Chiesa ha temuto la deriva marxista. Papa Francesco no. E parlare di poveri è forse la rivoluzione di cui abbiamo bisogno.

Domanda d’obbligo: lo Strega. Lei partecipa a un’edizione carica di polemiche. E si vocifera che il vincitore (Walter Siti) sia già stato deciso con un accordo fra case editrici. Brutta storia insomma…
Il mio Strega l’ho già vinto. Dai 14 ai 18 anni sono stato in officina al tornio e alla fresa. Ora il più grande gruppo editoriale ritiene che il mio romanzo abbia dignità per partecipare al premio. Le sembra poco?

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Stefania Berbenni