Gli 80 di Camporammaglia
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Valerio Valentini, ‘Gli 80 di Camporammaglia’ - La recensione

Il terremoto della modernità: storia di una comunità di scampati

Il grottesco, la nostalgia, la tenerezza, l’ironia e la ferocia si mischiano nell’impasto argilloso di un romanzo ambientato in un borgo immaginario dell’appennino abruzzese, una Macondo d’Italia come l’ha chiamato la conterranea Donatella Di Pietrantonio, sensibilissima cantrice dell’Aquila terremotata in Bella mia. Gli 80 di Camporammaglia, rimarchevole esordio di Valerio Valentini, è una storia collettiva narrata in flashback - un flashback disordinato e ondivago, pieno di gustose digressioni - da tre amici che preparano l’annuale cena paesana proprio nella piazza dove nel 2009, all’epoca della scossa, erano sistemate le tende.

Quella lenta fiumana di gente in pigiama

La fissità millenaria di Camporammaglia, spiega l’autore nel prologo, era quella di un luogo a 5 chilometri dal bar più vicino e a 10 dal primo supermercato. Non solo si conoscevano tutte, ma le 80 anime finivano per essere in qualche modo imparentate, come certificava la monotona toponomastica registrata all’anagrafe: non più di due-tre cognomi in tutto il circondario. Nessuna arcadia però, precisa subito il narratore riandando con la memoria a un sistema di relazioni basato sui non detti, che si apprendeva da neonati. Caso mai si trattava di una autosufficienza nella miseria, “l’indifferenza al resto del mondo come inconsapevole forma di sopravvivenza”.

Quel giorno di agosto allora il terremoto arrivò come una sentenza ma ancora una volta a bassa voce, quasi che Camporammaglia anche dalla natura venisse considerata un avversario di secondo piano. Le case del centro storico furono danneggiate, sì, ma niente a confronto con la devastazione dell’Aquila e di tanti altri nuclei abruzzesi. Il fatto che non ci furono vittime finì per indurre a pensare a un pericolo scampato. Come se l’invadenza del sisma non fosse riuscita neppure a eguagliare quella delle ruspe della Provincia. 

Col risultato che il mondo si accorse in ritardo dei camporammagliesi all’addiaccio e tutto arrivò dopo, le tende, i viveri, le cucine da campo, la solidarietà, i militari. La speranza invece non arrivò mai, nemmeno sotto forma di surrogato come quello che aveva conquistato invece la vicina Coppito, ospitando le star della politica internazionale - Obama Merkel Berlusconi a calpestare i suoli feriti e dispensare promesse a buon mercato. Così la tacita riverenza verso una sorte paradossalmente benigna presto lasciò libero campo alla diffidenza, ai rancori dissodati dalla convivenza forzata. 

Antropologia della provincia

Dove lo squasso colpì davvero duro fu nella violazione del tran tran paesano. Valentini indugia sulla metamorfosi della vita di provincia sciorinando una divertente sequenza di aneddoti. Nel passaggio dalla vita agreste - scandita dal lavoro nei campi e dalle serate al circolo fra calcio, politica e tressette - alla vita stanziale nella tendopoli, si aggroviglia una matassa di malumori e screzi. Rivolti ora verso il cinismo delle pubbliche autorità, ora verso il compaesano sospettato di fare il furbo coi viveri, ora verso il vicino di sacco a pelo sorpreso a pisciare fuori dalla tenda per non soccombere al gelo delle latrine. 

È una disillusione priva di giudizio ma anzi piena di empatia, quella del narratore. A sottolineare cosa ci accomuna di più nella disgrazia, un tratto molto umano anche se poco edificante: nella “presunta corsa affannata alla sopravvivenza l’attenzione alle esistenze degli altri diventa un lusso”. Il dialetto alimenta i dialoghi con battute fulminanti, uno strano miscuglio di sabino e romanesco in cui il turpiloquio s’innesta a segnare il ritmo dell'intercalare: “So’ venuti a rompe pure quel quarto di cazzo ancora intero”, esclama Vincenzo accogliendo i militari nella piazza del paese sventrato.

I ragazzi di Camporammaglia reagiscono alla disgrazia in accordo con gli sbalzi dell’adolescenza, che intanto si fa strada tra impulsi viscerali e contrapposti: insicurezza, ambizione, regressione, trasgressione. La vita da accampati con la sua disordinata improvvisazione all’inizio somigliava a un’avventura, ma presto si traduce in una quotidianità inconcludente, atrofizzata. Alla fine però la generazione dei figli consuma la rottura affrancandosi davvero dalla miseria dei padri, e in maniera sorprendentemente matura.

L'attaccamento a un mondo in estinzione

“Illusione per illusione, almeno teniamoci le nostre” conclude Alessio, l’amico d’infanzia con cui il narratore intesse innumerevoli dispute dialettiche sul destino che li attende. Andarsene o restare? Sbaragliando il luogo comune - cioè quello che i grandi, o il semplice buon senso, probabilmente consiglierebbero - loro scelgono di restare. E il primo simbolico atto è sublimare le angosce collettive rinnovando la tradizione della pupazza di Camporammaglia: una festa pagana con protagonista una bambola di cartapesta che viene fatta “ballare” sulle spalle dei convitati. 

Il finale è pieno di domande aperte, a toccare corde che ci riguardano tutti noi figli di un’epoca confusa, incerti se tagliare il cordone oppure irrobustirlo, se erigere nuovi muri al posto di quelli che avevamo appena distrutto. Non sarà, questo ricongiungimento a certe usanze del passato, questa utopia cocciuta, il frutto di una nostalgia diventata quasi “di moda”? O non sarà il modo di restare immuni all’omologazione della città? Quello che importa, per gli ex adolescenti, è la consapevolezza di aver compiuto una scelta. Soprattutto a Camporammaglia o dovunque si abbia avuto la sfortuna di crescere nella grettezza: “che per nessuno il disagio sopportato faccia da alibi all’indolenza”.

Valerio Valentini
Gli 80 di Camporammaglia
Laterza
140 pp., 15 euro

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Michele Lauro