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Vado alla deriva (e torno)

Vado alla deriva (e torno)

Intrappolata tra i ghiacci dell’Artico, la nave tedesca Polarstern si fa trasportare dalle correnti siberiane, senza una meta. Ma questo perdersi alla fine del mondo è intenzionale. Solo così, sfruttando le aperture naturali della calotta, la spedizione scientifica fornirà dati preziosi per capire i cambiamenti climatici. E ciò che ci aspetta.


Avvolta dai ghiacci, dal buio e da un’immensa solitudine, la Polarstern avanza alla deriva. Partita il 20 settembre 2019 dal porto norvegese di Tromsø, il 24 febbraio scorso ha toccato la latitudine di 88 gradi e 36 primi, portandosi a soli 156 chilometri di distanza dal Polo nord geografico (90 gradi). Mai una nave si era spinta così lontano nell’inverno artico. Il 22 aprile alle 16 la rompighiaccio tedesca era giunta a una latitudine di 84 gradi, un punto dello spazio tempo contraddistinto da queste caratteristiche: temperatura dell’aria -17,2 gradi centigradi, temperatura dell’oceano -1,8 gradi centigradi, pressione atmosferica 1.022 grammi per centimetro quadro.

A questi dati va aggiunta la velocità media della nave, pari a zero: come previsto dai piani della spedizione internazionale Mosaic (Multidisciplinary drifting Observatory for the Study of Arctic Climate), e come suggeriscono queste stesse parole inglesi, la Polarstern è una sorta di laboratorio alla deriva, volutamente intrappolato tra i ghiacci e trasportato dalle correnti. Polarstern in tedesco vuol dire «stella polare», l’astro la cui altezza dall’orizzonte in gradi misura la latitudine.

La rompighiaccio dell’Alfred Wegener Institute for Polar and Marine Research di Bremerhaven, in Germania, lunga 118 metri e capace di operare a temperature fino a -50 gradi, ospita una spedizione di circa 600 ricercatori di 20 nazioni e un numero enorme di strumenti per effettuare misure di ogni tipo: da quelle sulle caratteristiche del ghiaccio e delle colonne d’acqua fino a quelle dei processi biochimici e delle correnti marine. Non mancano elicotteri, piccoli sottomarini e strumenti per avvistare e tenere lontani gli orsi polari. Obiettivo ultimo della missione, fornire informazioni che verranno integrate nei modelli climatici così da renderli più affidabili nelle previsioni. Siccome quelle zone sono irraggiungibili durante il lungo inverno artico a causa dello spessore della calotta polare, impenetrabile anche da una rompighiaccio, si può solo farsi «imprigionare» d’estate quando tutto è più frammentato, e farsi fare trasportare dalla corrente. I dati essenziali che Mosaic ha il compito di raccogliere sono molto preziosi.

L’idea dei ricercatori di andare alla deriva non è nuova: negli anni 1893-1896 l’esploratore norvegese Fridtjof Nansen e i suoi compagni lasciarono che la loro nave restasse intrappolata nei ghiacci così da essere trasportati dalle correnti dalla Siberia all’Atlantico. Era la gloriosa Fram («Avanti» in norvegese), di cui si servì anche Roald Amundsen nella competizione con l’inglese Robert Scott per raggiungere il Polo Sud geografico. Con un compagno, Nansen a un certo punto della spedizione la abbandonò per raggiungere il Polo a piedi, ma alla latitudine di 86 gradi e 14 primi dovettero desistere. Sempre in quella spedizione i due stavano per perdere il kayak: non legato abbastanza saldamente, si allontanava dalla banchisa. Senza di quello sarebbero morti. Nansen si tuffò in mare fino a raggiungere il kayak con gli arti semiparalizzati e lo riportò indietro.

Se quell’esplorazione è passata alla storia per le imprese eroiche, non ha però raggiunto importanti risultati scientifici, disponendo solo di strumenti rudimentali. Così la nuova spedizione della Polarstern è più che mai necessaria, anche perché da 125 anni a oggi sono cambiate le domande e i problemi dell’umanità. In particolare, come emerge da un recente studio dell’università di Amburgo, anche nel caso la CO₂ resti al di sotto di due gradi di aumento, l’Artico si troverà libero dai ghiacci a settembre già prima del 2050. Quante volte poi questo accadrà negli anni dipenderà da quanto conterremo le emissioni: più alta la frequenza, maggiori le conseguenze. Comprendere meglio gli effetti globali e regionali del cambiamento climatico in Artico dovuti allo scioglimento del ghiaccio servirà sia alle comunità locali sia a quelle delle medie latitudini.

Il giorno in cui la banchisa artica, cioè la crosta di ghiaccio che si forma dal congelamento dell’acqua marina, si scioglierà del tutto sarà un evento epocale. Una data che non sembra così lontana secondo Markus Rex, leader della spedizione e ricercatore dell’Alfred Wegener Institute: «Stiamo incontrando uno spessore del ghiaccio molto più sottile di quanto potessimo immaginare, incredibilmente dinamico e in moto. Vediamo sempre più spesso nuove spaccature e canali, così come protuberanze frutto della forte pressione delle lastre una contro l’altra».

Una nuova analisi su The Cryosphere prevede che il ghiaccio insolitamente sottile della calotta sconvolgerà i piani della missione, portando la Polarstern in meno di un anno molto più lontano dal punto previsto, cioè lo stretto di Fram, il braccio di mare tra le isole Svalbard e la Groenlandia. Afferma Marika Holland, ricercatrice del National Center for Atmospheric Research: «I cambiamenti nel sistema artico sono così rapidi che le osservazioni via satellite di 15 anni fa su cui ci basiamo sono molto diverse da ciò che la spedizione sta vedendo adesso».

Nonostante gli incidenti di percorso, come i danni agli strumenti per una tempesta a novembre con venti a 100 chilometri orari, o l’infezione da Covid-19 di uno dei ricercatori che avrebbe dovuto raggiungere la spedizione, la missione sta portando avanti le sue ricerche. Per monitorare l’atmosfera e capire se l’oceano artico continuerà ad assorbire CO₂ mentre si riscalda, i ricercatori stanno usando palloni aerostatici; per scoprire le interazioni tra ghiacci, oceano e assorbimento di luce fanno misure su colonne d’acqua. Un primo dato certo ottenuto con gli strumenti del Leibniz Institute for Tropospheric Research è la presenza in atmosfera di diversi strati di polveri sottili a 5, 6 e 12 chilometri di quota provenienti da fonti di origine umana e da incendi di foreste. Altri risultati arriveranno. Saranno utili alle generazioni future, che riceveranno in eredità un mondo non certo migliore di quello lasciato a noi.

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