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Carlo Mauri, l’ultimo Ulisse

Carlo Mauri, l’ultimo Ulisse

Ha compiuto imprese epiche ai Poli, sulle vette più alte del pianeta, nelle foreste pluviali e lungo fiumi-mito. Ma non è stato celebrato come merita questo alpinista-esploratore, che ha allargato i confini tenendo sempre ben a mente una verità: «C’è da conoscere l’uomo». Una mostra ora lo racconta.

«Perché vai in montagna?». «E tu perché respiri?». Si potrebbe cominciare e finire qui, dove la realtà passa il testimone alla suggestione dell’infinito, dove la parola «montagna» ha il significato allargato di natura, esplorazione, mistero, dolore, rinascita. In sintesi, dove Carlo Mauri è vissuto per tornare, a 40 anni dalla morte, a rivelarci il segreto di un’esistenza sempre al limite. La sua è una rivincita postuma. Compresso fra monumenti mediatici come Walter Bonatti e Reinhold Messner, l’uomo dal passo lungo torna nella sua Lecco con una mostra che ne ripercorre la vita e la filosofia.

S’intitola Nato in salita, parla di sfide e trascendenza, l’ha curata la figlia Francesca e si potrà visitare fino a novembre al Palazzo delle Paure, che ha un nome così curiosamente cupo per un motivo ovvio: era la sede delle dogane e dell’ufficio imposte. Carlo Mauri lo riempie con cimeli, video, fotografie scelte fra 15 mila diapositive, frutto anche del lavoro immenso del nipote Pietro, videomaker. Ma soprattutto l’ultimo esploratore pervade quello spazio con la sua personalità unica, fuori scala. Diceva nel libro-testamento Quando il rischio è vita (uscito nel 1975, ripubblicato nel 2017): «Penso e scrivo la mia storia come se scrivessi e pensassi di un altro uomo. O meglio di altri uomini, di tanti quanti in ogni atto, avvenimento, caso o avventura si sono trasfigurati in me: diventando un alpinista delle Alpi, uno sherpa sull’Himalaya, un eschimese in Groenlandia, un discendente degli Incas sulle Ande, un masai sul Kilimangiaro, un uomo primitivo tra gli indiani d’Amazzonia e fra gli aborigeni del deserto australiano».

Carlo Mauri, l’ultimo Ulisse
Sulla nave Tigris, imbarcazione interamente in giunco con la quale Mauri attraversò l’oceano (archivio famiglia Mauri)
Carlo Mauri, l’ultimo Ulisse
Mauri in un villaggio al confine tra Pakistan e Cina prima della scalata al Gasherbrum nel 1958 (archivio famiglia Mauri)
Carlo Mauri, l’ultimo Ulisse
Il Ra1 e il Ra2 erano barche in giunco costruite con l’antropologo norvegese Thor Heyerdahl (archivio famiglia Mauri)
Carlo Mauri, l’ultimo Ulisse
Carlo Mauri durante una delle sue scalate (archivio famiglia Mauri)
Carlo Mauri, l’ultimo Ulisse
Mauri su un cammello durante la spedizione sulle orme di Marco Polo del 1972-73 (archivio famiglia Mauri)
Carlo Mauri, l’ultimo Ulisse
Ai piedi dei Buddha di Bamiyan, distrutti dai Talebani nel 2001 (archivio famiglia Mauri)

Lo è stato. Il «Bigio» (lo chiamavano così, come un gatto o un lupo grigio) ha percorso tutte le tappe con una velocità supersonica perché l’Altissimo gli ha lasciato poco tempo, strappandolo alla famiglia e al mondo quando aveva solo 52 anni. Eppure è riuscito a lasciare un segno ovunque, a portare la bandiera italiana e quella dei Ragni della Grignetta di Lecco nei luoghi iconici del pianeta. Prima come alpinista sul Monte Bianco, sul Sarmiento in Terra del Fuoco, sul Cerro Moreno in Patagonia, sull’Aconcagua, sul Kilimangiaro, sull’Everest, su quattro vette inviolate dell’Antartide, sul micidiale Gasherbrum IV in Karakorum proprio con Bonatti, nell’epica spedizione di Riccardo Cassin, che di Mauri era il mentore.

Nomi che inducono alle vertigini chi prende l’ascensore per andare al terzo piano e danno la misura del coraggio, della sfida, della ricerca dell’oltremondo. Ma a Mauri non bastava, era molto di più di un alpinista. Cercava la via della conoscenza zigzagando come Ulisse, passando da un’esperienza all’altra, da una vita all’altra, come bene descrive la mostra suddivisa in sei sezioni (gli «Ambienti mondo») per non fare confusione: montagne e ghiacci, deserti, steppe e praterie, foreste, oceani e fiumi, insediamenti. Spiegava così l’urgenza di partire, non si sa se verso Troia o verso Itaca: «Non pongo limiti all’esistenza e proseguo, resisto, superando il caso che sembrava incredibile. In questo modo si compie il miracolo di scoprirmi la forza che genera in me la “fede”, che è fiducia, lealtà, impegno e adesione fervida a un ideale. È una forza misteriosa che hanno certi popoli del deserto o della foresta e anche i pescatori in mare, i contadini sulla loro terra e tutti gli uomini nella loro infanzia. E che poi lasciano atrofizzare, insieme con gli altri cinque sensi e con la fantasia».

Lontano dalla civiltà, alla ricerca dell’umanità attraverso la solitudine. Su una delle magliette realizzate per la mostra è scritto il suo motto in dialetto lombardo: «Das atrà», datti retta, ascoltati. Quando sei in montagna o da solo davanti al Grande Nulla, è fondamentale parlare con il tuo io e soprattutto ascoltare le risposte. Conosci te stesso, la filosofia socratica impregnava i neuroni del Bigio. Ed eccolo all’opera, con le spedizioni in Amazzonia con i missionari, in Australia e in Nuova Guinea fra gli aborigeni, in Antartide nell’isola di Ross e a censire gli orsi bianchi al Polo Nord, in Patagonia una vita prima di Bruce Chatwin. Peraltro sapendo «che ci faccio qui». Parole di Mauri: «A volte per adattarmi all’ambiente ho dimenticato la mia cultura occidentale e sono sopravvissuto con il solo istinto, come un animale. Ho immaginato di essere un pinguino all’Antartide e anche un delfino, quando navigavo a vela nelle acque tempestose di Capo Horn». A chi gli chiedeva cosa avrebbe fatto una volta scoperto tutto, rispondeva serio: «C’è sempre da scoprire l’uomo».

Montagne, deserti, foreste infinite. Le spedizioni sono documentate da splendidi reportage per National Geographic, Rai, Domenica del Corriere ed Epoca, perché Mauri era anche fotografo e giornalista. Per chi lo ricorda oggi, tutto ciò è meravigliosamente laterale rispetto a tre imprese che non sanno solo di passato ma di futuro. La prima è la doppia traversata dell’oceano Atlantico con il Ra1 e il Ra2 e (oltre 6 mila chilometri dal Marocco a Barbados) assieme a Thor Heyerdahl, quello del Kon-Tiki, su imbarcazioni costruite in papiro per dimostrare la possibilità di contatti fra le antiche civiltà del Mediterraneo, dell’Asia e dell’America Centrale. La seconda è la ricerca del lontano Oriente con Il Milione in tasca. È la tensione verso la Via della seta percorsa per la prima volta da Marco Polo, che nel 1972 Mauri ripropone a dorso di cavallo, da Venezia a Pechino. A chi lo definiva un eroe del suo tempo rispondeva da camminatore senza illusioni: «Io non sono un superuomo più di quanto non lo siano i minatori in Belgio o i contadini di montagna. Ho paura, freddo, fame, desideri come tutti gli uomini. La gente esclude di poter essere protagonista di un fatto e allora crea il super, crea il mito».

La terza impresa è la più tortuosa e complicata, è un «das atrà» continuo. Per anni Mauri convive con la sofferenza: ha un arto più corto dell’altro, colpa di una vecchia frattura sugli sci. La menomazione non gli impedisce di continuare a sfidare i limiti. Scrive: «La mia gamba resti pure martoriata, peggio per lei. Io vado in montagna e lei deve seguirmi». Sulla piroga Ra1, nelle albe oceaniche, il medico di bordo Yuri Senkevitch gli racconta di un luminare sconosciuto che in Siberia fa miracoli con le ossa dei pazienti. Lui prende appunti e nel 1979 attraversa la cortina di ferro per raggiungere Gabriel Abramovic Ilizarov fra i pastori Kurgan; non solo viene curato ma porta Ilizarov a Lecco con la sua innovativa filosofia ortopedica. Il professore lo guarisce, gli allunga la gamba di quattro centimetri.

Fuori dal Palazzo delle Paure oggi c’è una scultura, rappresenta un tutore che tiene insieme un femore o una tibia. È il simbolo del genio di un uomo e di una svolta scientifica. «Ho voluto io l’allestimento di quella strana gabbia perché so che le risposte sono lì dentro» spiega Francesca Mauri, che da 40 anni custodisce la memoria del padre. «Mostra quanto una persona possa soffrire e superare la sofferenza. Il percorso è accettare il dolore per poi sconfiggerlo». Così ci si accorge che l’ultimo viaggio del Bigio è qualcosa di introspettivo che va oltre il suo tempo, arriva fino a noi e ci offre le chiavi per capire chi siamo. «Il mio cruccio è sempre stato di non veder rappresentare mio padre soltanto come alpinista o esploratore, ma come qualcosa di più profondo, un uomo alla ricerca dell’uomo, nel rispetto delle differenze e delle identità. Lui è morto giovane, ha fatto grandi cose in 20 anni. Conoscerlo significa avvicinare i giovani a un modo diverso di viaggiare: avere curiosità, partire senza il bagaglio del preconcetto. Papà diceva: se stai sempre dalla tua parte non impari niente». Come abbattere con una frase le nostre «comfort zone».

Carlo Mauri muore il 31 maggio 1982, 40 anni fa, dopo un infarto mentre si allena sulla via ferrata del Pizzo d’Erna, il bastione roccioso ai piedi del Resegone, a picco su Lecco. Praticamente a casa, come Ulisse. La figlia Francesca supera un attimo di malinconia con una frase che spiega le assenze: «È stato un padre originale, aveva in mente il mondo; la casa era il luogo in cui tornava». E al culmine del ricordo, con davanti tutte le imprese, decide qual è stata la più straordinaria. «Quando l’ho visto entrare dal cancello dopo l’intervento, non zoppicava più. Portava scarpe da ginnastica e da quel giorno cominciò a farne collezione».

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