Un libro appena uscito sostiene che le ricette nostrane più famose siano frutto di un crogiolo culturale e influenze straniere. Nulla di veramente originale e «made in Italy». Paradosso o verità? Panorama lo ha chiesto ad alcuni chef stellati.
Avete appena mangiato una parmigiana di melanzane, una cotoletta alla milanese, uno spaghetto al pomodoro, le trofie al pesto, una fiorentina gustosissima? State per ordinare una pizza margherita, un piatto di tortellini in brodo, lasagne ancora sfrigolanti? Ebbene, state consumando una cucina inesistente: quella italiana. Ma come? Non è forse di tendenza in tutto il mondo, dopo la dittatura di alghe e licheni del nord Europa, per non parlare di sushi e sashimi giapponesi? Mettete da parte il gastronazionalismo e convincetevi: La cucina italiana non esiste, come recita il titolo del libro (Mondadori) scritto da Alberto Grandi e Daniele Soffiati. Un volume dal sottotitolo esplicativo: «Bugie e falsi miti sui prodotti e piatti cosiddetti tipici». La tesi non è soltanto una provocazione. Gli autori sostengono che abbiamo poco da pavoneggiarci con tradizioni autoctone che affonderebbero nella notte dei tempi. La nostra cucina è una tavolozza con i colori portati dalle influenze culturali cui l’Italia, per storia e geografia, è da sempre sottoposta.
Nulla di nuovo: studiosi come Massimo Montanari e Alberto Capatti avevano già detto che la nostra tavola è un ventaglio di cucine regionali, a loro volta spurie e in evoluzione, non manifesto di un’identità nazionale, difficile da definire in ogni campo, figuriamoci tra i fornelli. Si legge nel libro: «Alla radice del nostro modello alimentare ci sono le cucine di altri popoli, magari proprio di quelli che oggi consideriamo gastronomicamente inferiori, come tedeschi, americani, inglesi o nordafricani». E ancora: «Gran parte della nostra gastronomia e dei nostri leggendari prodotti alimentari è nata dopo il boom economico, quando ci siamo lasciati definitivamente alle spalle la povertà e la fame che ci avevano attanagliati nei secoli precedenti».
Dunque non esiste la cucina italiana come viene celebrata, o se esiste è un’invenzione recente, con tradizioni studiate a tavolino. Un processo di mitizzazione noto nella storia politica e nazionale, non solo in Italia, che per la prima volta investe il settore enogastronomico. Il libro fa discutere. È uscito poche settimane dopo che, in marzo, una commissione nazionale ha candidato all’Unesco la cucina italiana come Patrimonio immateriale dell’umanità. Ma quale cucina? Quella ricca di rimandi storici farlocchi o le ricette messe a punto cinquanta, sessanta anni fa? Anch’esse meritevoli del riconoscimento Unesco: mostrano quanto la cucina sia contaminazione di culture, non difesa tetragona di tipicità e tradizioni tutte da dimostrare. Abbiamo fatto un giro di pareri, a partire da cuochi di primissimo ordine. Enrico Bartolini, chef e imprenditore che se dovesse indossare le 13 stelle Michelin assegnate ai suoi locali sembrerebbe un generale alle grandi manovre, dice: «La cucina italiana esiste. È fatta di ingredienti favolosi, unici e di una varietà inimitabile. Oggi, finalmente, ogni regione e provincia racconta la propria biodiversità. Detto questo, già nel Medioevo e nel Rinascimento i nostri cuochi al servizio delle famiglie nobili hanno ingolosito l’Europa. Guardiamo avanti con orgoglio, non mettiamo in discussione la nostra immensa importanza».
Andrea Berton, chef che sta celebrando i dieci anni del ristorante stellato a Porta Nuova, Milano (e ha nuovi progetti nella metropoli), argomenta: «La lasagna non la fanno in Francia, così come gli agnolotti e i tortellini. E il pesto alla genovese? Sfido chiunque a dire che non sia italiano. Abbiamo la più ampia varietà culinaria al mondo, è il nostro momento. Dobbiamo coalizzarci in modo che passi il messaggio dei prodotti di qualità, lavorati in sintonia con la cucina contemporanea». Dice invece Michelangelo Mammoliti, due stelle Michelin al Le Rei Natura di Serralunga d’Alba (Cn): «Il libro è una pungente provocazione, ma non sono in totale disaccordo con gli autori. Molti piatti simbolo, dalla pasta alla pizza, non esisterebbero senza il fondamentale contributo di prodotti alimentari prima sconosciuti in Italia. Basti pensare ai pomodori, ai peperoni, alle melanzane. La cultura culinaria nazionale, contaminata dalle tradizioni di altri popoli, è immensa, viva, in evoluzione. In gastronomia non esistono confini. Alcuni ci sono stati imposti dal marketing, dovremmo fare di tutto per scardinarli».
Una voce dal sud è Marco Ambrosino, del Ristorante Sustanza (Napoli), segnalato dalla Michelin: «Mi trovo in sintonia con Alberto Grandi. Tutto ciò che noi intendiamo come cucina italiana è frutto di dinamiche commerciali recenti. Il lavoro di Grandi spicca in un panorama di pseudonazionalismo gastronomico. Un esempio? La parmigiana di melanzane arriva dal mondo arabo. Sembra che il nome derivi dalla somiglianza con le persiane parasole dei palazzi arabi. E il cioccolato di Modica? Non è tradizionale di quella città, ma di una pasticceria. Si chiamava cioccolato di Bonajuto». Enrico Marmo, una stella Michelin ai Balzi Rossi di Ventimiglia (Im), difende la tradizione: «La cucina italiana esiste da secoli. Abbiamo fonti che lo documentano. Per esempio, i libri di Giovanni Vialardi, cuoco e pasticcere al servizio di re Carlo Alberto. Parlando della Liguria, qui è tradizione, non moda degli ultimi tempi, utilizzare erbe fresche, olive taggiasche, pinoli».
Anche Raffaele Lenzi, chef del Ristorante Il Sereno Al Lago, Torno (Co), una stella Michelin, prende le distanze dal libro: «Dire che la cucina italiana non esiste è eccessivo. Certo, lo sviluppo delle industrie alimentari, attente ai guadagni, ha cambiato molte abitudini. Magari tra cinquant’anni la pizza con l’ananas o la salsa al pomodoro con il rosmarino saranno ricette tipiche della cucina italiana. E allora? Il bello sta nel mutamento». Di tradizione che muta parla un grande esperto: Luigi Cremona, forse il palato più autorevole d’Italia, in prima linea nella valorizzazione dei talenti di ristorazione e hôtellerie, anche per quel che riguarda la sala. «La cucina italiana esiste, eccome, ma è difficile da definire. Ha una storia composita. La nostra tradizione non è un museo, ma è il presente, in continuo divenire, segno di grande e invidiabile vitalità».