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B.B.: La ribelle che dice no al sogno americano

B.B.: La ribelle che dice no al sogno americano

La Rubrica – Stili Umani

C’è una fotografia del 1953 che ritrae una ragazza di diciannove anni, capelli scuri raccolti in una coda, sguardo timido ma già magnetico. È Brigitte Bardot al Festival di Cannes. Nessuno può immaginare che quella ragazza farà esplodere il cinema mondiale, né che dirà “no” a Hollywood quando tutte dicono “sì”.

Nata a Parigi il 28 settembre 1934, Brigitte Anne-Marie Bardot non ha certo il destino della ribelle scritto sulla culla. Famiglia borghese, educazione rigida, lezioni di danza classica. Sua madre la vuole ballerina dell’Opéra, lei invece si ritrova sulla copertina di Elle a quindici anni. Un caso? No. È già quella cosa lì: una creatura che la macchina fotografica ama senza riserve.

Ma la sua bellezza non è quella delle dive tradizionali. Bardot è bella perché è imprevedibile. I capelli sono sempre un po’ spettinati, come se si fosse appena alzata dal letto o fosse appena scesa da una barca. Non porta mai troppo trucco – solo quel tratto di eyeliner nero che allunga lo sguardo, le labbra nude o appena rosate. Si muove scalza ovunque, anche sui red carpet. Indossa jeans strappati quando tutte indossano tailleur, si presenta alle feste con una camicia bianca da uomo annodata in vita. È noncurante ma devastante. È questa contraddizione che ipnotizza: sembra non curarsi di essere bella, eppure è bellissima proprio per questo.

«Ero terribilmente timida», racconta anni dopo. «Non sapevo cosa fare di me stessa, del mio corpo, della mia faccia.» Eppure quel corpo e quella faccia definiscono un’epoca. Roger Vadim, suo primo marito e scopritore, la vede e capisce: in lei c’è qualcosa di selvatico, di non addomesticabile. La sposa quando lei ha diciotto anni, lui ventitré. È lui a modellarla? O è lei a trovare finalmente qualcuno che la lascia essere?

Il 1956 è l’anno dell’esplosione. «Et Dieu… créa la femme» (Piace a troppi) esce nelle sale e il mondo non è più lo stesso. Bardot appare sullo schermo in quella che non è una scena di sesso – è molto meno e molto più. È libertà pura, sensualità senza colpa, una donna che si muove come se il giudizio degli altri non esistesse. Il film è scandaloso. In Italia viene censurato, negli Stati Uniti discusso. A lei non importa.

Ecco il primo grande aneddoto: quando Hollywood bussa alla porta con contratti milionari, Bardot dice no. Non una volta. Molte volte. Rifiuta ruoli in «La gatta sul tetto che scotta», in film con James Dean, con Marilyn Monroe. «Non voglio andare in America», spiega senza giri di parole. «Lì ti trasformano in una bambola. Io voglio restare me stessa.» Mentre Sophia Loren parte per il sogno americano, Bardot resta a Parigi, a Saint-Tropez, nel suo mondo.

E poi c’è Roma. Fine anni Cinquanta, inizio dei Sessanta. Via Veneto scintilla di notte come un set cinematografico. I tavolini del Caffè de Paris sono sempre pieni, i camerieri in giacca bianca scivolano tra le celebrità, i paparazzi aspettano appoggiati alle loro Vespe. Il rumore è costante: risate acute, motori che rombano, flash che esplodono come petardi, jazz che esce dai locali sotterranei mescolandosi al clacson dei taxi.

È qui che Brigitte incontra Luigi “Gigi” Rizzi, giovane ragazzo romano, elegante, mondano, perfettamente inserito in quella Roma felliniana che non dorme mai. Lui la guarda attraverso il fumo delle sigarette a una festa sull’Appia Antica. Lei sorride. Bastano pochi giorni e Via Veneto ha una nuova regina.

Gigi la porta ovunque: da Alfredo’s, all’Hostaria dell’Orso, al Piper Club dove lei balla scalza fino all’alba con addosso un abitino nero sgualcito. Ma è il modo in cui si comporta che lascia tutti senza fiato. Brigitte si alza di scatto dai tavoli, lascia lì il piatto a metà – magari un’aragosta appena servita, il vino nel bicchiere ancora pieno – ed esce nel rumore della notte romana perché qualcosa l’ha infastidita o semplicemente perché può. Non chiede scusa, non spiega. Se ne va e basta, i capelli che volano dietro di lei, le scarpe in mano.

È libera. A Roma è libera in un modo diverso da Parigi: più caotico, più viscerale, meno controllato. Fellini la osserva da un tavolino del Canova, prende appunti su un tovagliolo. Mastroianni le offre una sigaretta, lei la rifiuta con un sorriso storto. I fotografi la inseguono, lei si volta e ride, oppure gli fa il verso, oppure sparisce in un vicolo. Gigi la protegge e insieme la espone, perché è così che funziona Via Veneto: tutto è spettacolo, anche l’amore.

«Roma è l’unica città dove posso respirare», confessa a un’amica. Ma la storia con Gigi dura poco più di un anno. Lui vuole sposarla, lei ha paura. Troppo possessivo, troppo presente. E Brigitte torna a Parigi, lascia Roma e la Dolce Vita dietro di sé come un sogno bellissimo e impossibile.

E Saint-Tropez! Prima del 1956 è un villaggio di pescatori. Dopo Brigitte Bardot diventa il simbolo di una certa idea di libertà francese. Lei ci va, cammina scalza sul porto con i jeans arrotolati, balla nei caffè. La gente impazzisce. Turisti, fotografi, curiosi: tutti a caccia di B.B. Lei fugge in barca, si nasconde, ma continua a tornare. Perché? «È l’unico posto dove posso ancora respirare», dice.

Gli anni Sessanta sono un turbine. Bardot gira due, tre film all’anno. «La verità» di Henri-Georges Clouzot nel 1960 le dà finalmente rispetto critico. Interpreta una ragazza libera, amorale, accusata di omicidio. La Bardot non recita: è. Il confine tra persona e personaggio diventa così sottile che nemmeno lei sa più dov’è.

Ma c’è un Prezzo, a ventisei anni, affronta un periodo molto doloroso.  La pressione, i paparazzi, le aspettative, gli amori finiti male – Vadim, poi Sacha Distel, poi Jacques Charrier con cui ha un figlio che non riesce mai a crescere davvero. «Sono stata trasformata in un’icona», scrive nella sua autobiografia. «Ma io volevo solo essere una ragazza normale.»

Un aneddoto poco conosciuto: durante le riprese di «Le mépris» (Il disprezzo) di Jean-Luc Godard nel 1963, Brigitte è devastata. Il film parla di un matrimonio che crolla, e il suo sta crollando davvero. Godard la filma nuda, ma non in modo erotico. La filma come una creatura in gabbia. Fritz Lang, che recita nel film, la guarda con compassione. «È troppo giovane per portare tutto questo peso», dice al regista. Godard non gli dà retta.

Nel 1973, a trentanove anni, Brigitte Bardot gira il suo ultimo film. «L’histoire très bonne et très joyeuse de Colinot Trousse-Chemise». Un titolo che non ricorda nessuno, un film che non vede quasi nessuno. Lei annuncia il ritiro e sparisce. Letteralmente. Si chiude nella sua casa a Parigi, poi a La Madrague, la villa a Saint-Tropez.

«Ho dato tutto al cinema. Il cinema ha preso tutto da me», dichiara. E poi? Poi scopre gli animali. Non come passatempo, come missione. Ed è qui che la sua imprevedibilità raggiunge il culmine: la donna più bella del mondo sceglie di vivere con cani randagi, gatti malati, asini abbandonati. Nel 1986 fonda la Fondation Brigitte Bardot per la protezione degli animali. Mette all’asta gioielli, pellicce, ricordi. Raccoglie milioni. Salva cani, gatti, foche, elefanti. Le sue mani – quelle mani che hanno accarezzato i volti di Mastroianni e Delon – ora puliscono canili, medicano zampe ferite, riempiono ciotole. Diventa più famosa per questo che per i suoi film.

È questa scelta che definisce chi è davvero. Non le pose studiate, non i film, non gli amanti famosi. Ma la decisione di voltare le spalle a tutto e scegliere gli ultimi, i senza voce, gli animali che nessuno vuole. È imprevedibile fino alla fine, anche quando questa imprevedibilità delude, scandalizza, allontana.

Ma Bardot non diventa una santa. Tutt’altro. Le sue posizioni ideologiche la rendono controversa, criticata. La ribelle è diventata reazionaria? O è sempre stata così, e nessuno ha voluto vederlo?

Un ultimo aneddoto, forse il più rivelatore. Negli anni Novanta, un giornalista le chiede se ha rimpianti. Lei risponde: «Rimpiango di essere nata bella. La bellezza è stata la mia prigione.» Poi, dopo una pausa: «Ma forse è stata anche la mia unica libertà.»

Viveva ancora a La Madrague, circondata dai suoi animali. Non rilasciava più interviste, non appariva in pubblico da tempo, quando se ne è andata. Esistono solo fotografie rubate: una bella signora con gli occhiali da sole troppo grandi, i capelli bianchi sempre spettinati dal vento, ancora bella in modo struggente. Sempre imprevedibile, noncurante, vera.

È stata icona, musa, vittima, carnefice di se stessa. È stata la prima a mostrare che il corpo femminile può essere politico senza essere volgare, libero senza essere vuoto. Ha incarnato la Nouvelle Vague, il Sessantotto, Saint-Tropez, la Francia. E poi ha detto basta. Ha chiuso la porta e ha scelto chi salvare: sè stessa e gli animali.

Forse è questo che la rende ancora affascinante. Non è stata perfetta, non è stata coerente, non è stata sempre amabile. La sua bellezza non sta nei lineamenti – che pure sono perfetti – ma nell’imprevedibilità. Nel non sapere mai cosa farà dopo. Nell’alzarsi e andarsene quando tutti si aspettano che restasse. Nel scegliere gli animali quando tutti si aspettano che scegliesse gli uomini.

Alla fine, Brigitte Bardot non è solo una donna bellissima che ha fatto impazzire il mondo. È qualcuno che ha capito quando fermarsi, quando dire no, quando scegliere la solitudine al circo. Anche se questo significa deludere, scandalizzare, sparire.

Perché B.B. non ha avuto paura di dire no. Non ha avuto paura di essere imprevedibile. È questa la sua vera bellezza. Spettinata, sorridente, sola. Libera. Imperfetta forse, ma libera.

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