Circa 35 milioni di persone nel mondo sono nomadi digitali e un italiano su due valuta di trasferirsi in provincia. Intanto nascono piattaforme e professioni come l’«escape coach» che aiutano nel grande passo di rivoluzionare la propria vita e lavorare da un luogo remoto.
«Non fa per me». «Non saprei da dove cominciare». «Non trovo abbastanza tempo per provarci davvero». «Non ho le spalle coperte». «Non voglio deludere la mia famiglia». «Non sopporto il giudizio degli altri». O in due parole, molto più oneste: «Ho paura». Sono tutti esempi di freni mentali, o «credenze limitanti», per usare la definizione che di questi pensieri dà il libro Mollo tutto e cambio vita (Newton Compton Editori). Un manuale per «progettare il piano B perfetto», come recita il sottotitolo. Per imprimere una svolta alla propria routine lavorativa. A scriverlo, chi già ha portato a termine un percorso di rivoluzione esistenziale: Monica Lasaponara lavorava nel marketing di un’azienda, l’ha lasciata, si è messa in proprio. Oggi è una «escape coach», un’insegnante di fuga, un’allenatrice di sedizioni autoriferite: «Accompagno chi si affida a me nella transizione da una posizione da dipendente a un’attività autonoma».
Ha aiutato oltre mille persone, è stata la sua prima cliente, una cavia motivata e consapevole. Ha dimostrato che con determinazione, spirito di sacrificio, un metodo graduale e rigoroso, si può realizzare quello che reputiamo inverosimile. «Ma non si fa tutto all’improvviso» spiega. «Il cambiamento non è un interruttore, va capito e pianificato». Procedendo per tentativi ed errori, sacrificando i fine settimana, alzandosi prestissimo se necessario, scuotendosi dal torpore di qualunque alibi: «Scoprii in me un’energia che non pensavo di avere» confessa Lasaponara nel libro. Un’attitudine elastica è il preludio per abbracciare un lavoro fuori dagli schemi, «qualunque esso sia, basta che ti renda allineato a te stesso». Svolgerlo da casa, da un bar, davanti a montagna, a due passi dal mare, da qualunque continente. Una scelta, quest’ultima, che è già la normalità per 35 milioni di persone nel mondo: i «remote worker», i professionisti senza vincoli geografici, che hanno un computer, una connessione a internet, la loro creatività come unici ferri del mestiere.
Contribuiscono all’economia globale con 787 miliardi di dollari l’anno, in media guadagnano circa 1.700 euro al mese, se fossero una nazione sarebbero la 41esima più popolata sul pianeta. Le stime arrivano dall’Associazione italiana nomadi digitali e sono state presentate a fine novembre a Firenze durante l’ultima edizione di Bto, la manifestazione di riferimento per il connubio tra viaggi e innovazione. Due universi a braccetto, visto che online si trovano tutte le risorse e gli strumenti per passare dalla teoria alla pratica. Il sito Nomadlist.com è una miniera d’informazioni: per ciascuna località appetibile per i remote worker fornisce numerosi parametri, sia economici (il prezzo per un appartamento o una stanza, una cena, una scrivania in un coworking) che intangibili, ma cruciali (livello di criminalità, atteggiamento verso donne e omosessuali, possibilità di essere capiti se si mastica l’inglese). Di più: come in un social network aggregato per destinazioni, censisce e raccoglie gli espatriati in ogni meta. Li si può contattare, chiedere loro dritte e suggerimenti.
Vari Stati hanno fiutato l’affare, perché il nomade digitale porta capitali nell’area in cui vive e li spende in loco. L’Italia stessa, lo scorso anno, ha varato un provvedimento per attrarre i lavoratori extra Ue, concedendo loro un visto specifico fino a un anno. Le nazioni più liberali, censite dal sito americano Business Insider a inizio dicembre, sono per esempio i paradisi caraibici di Anguilla e St. Lucia, che non richiedono un salario minimo per trattenersi nel Paese. Mentre Preply, una piattaforma dedicata all’apprendimento delle lingue, ha calcolato che Kuala Lumpur in Malesia è la città più economica dove trasferirsi: il costo della vita complessivo per un mese è di poco superiore ai mille euro, tutto incluso; segue Tbilisi in Georgia, con 1.350 euro.
Sogni e aspirazioni sono di certo un propulsore poetico, i conti in tasca, però, è obbligatorio farseli, specie se non si possiede una rendita. Elisabetta Galeano, un’altra remote worker soddisfatta, ha deciso di supportare chi cova una trasformazione radicale. Ha lavorato per dieci anni nella grande distribuzione, si è reinventata come «money coach»: «Aiuto le persone» racconta «a vivere il denaro in maniera serena, a costruire una relazione sana con i propri conti». Senza ricette universali: «Anzi, è un cammino personalizzato, che permette di realizzare gli obiettivi in base alle risorse che si hanno a disposizione, poche o tante non importa».
Per essere pragmatici, un money coach assiste nel calcolare il proprio fabbisogno effettivo, sfrangiando l’inessenziale, eliminando gli sprechi. «Anche perché chi diventa freelance deve farsi carico di una fetta di spese che prima non aveva. Oltre che mentale, il passaggio è numerico». E, nel quotidiano, occorre ottimizzare modalità e tempi: «Per avere maggiore flessibilità, faccio tutto online. Non ho mai visto nessuno dei miei clienti di persona». Così viene meno l’ancoraggio a una sede fisica. E si rafforzano le tentazioni, e i presupposti, per spostarsi. All’estero e non solo: il 53 per cento degli italiani che vivono in una grande città sta prendendo in considerazione un trasferimento in provincia. Non significa che lo faranno davvero, sarebbe uno spopolamento di massa, ma l’idea stuzzica e tenta. A dirlo è un sondaggio recente, presentato lo scorso ottobre e condotto da Doxa Bva per David Lloyd Clubs Malaspina, leader europeo nel settore del wellness. Tra le motivazioni principali di questa potenziale transumanza verso la periferia, la necessità di affrancarsi dalla frenesia metropolitana e ridurre lo stress (73 per cento del campione), ma anche motivazioni più concrete: risparmiare sul costo della vita (55 per cento) e della casa (52 per cento).
Se pure in questo caso la prospettiva spaventa, si possono fare le prove generali di metamorfosi: Smartway è un servizio che permette ai freelance e ai dipendenti di un’azienda di sperimentare la quotidianità da smart worker. Per periodi variabili a propria scelta, in borghi italiani magnifici come Sciacca in Sicilia o Montepulciano in Toscana. È da qui che Berardino D’Errico, uno dei fondatori, risponde alle domande di Panorama. Anche lui era impiegato in una multinazionale, l’ha mollata, ha aperto un bed & breakfast, si è lanciato nel noleggio di biciclette, poi ha ideato questa start-up con un gruppo di soci: «Pensiamo a tutto noi, dal trasporto da una stazione o un aeroporto, all’alloggio, fino al coworking con una connessione stabile».
Smartway va oltre: «In ogni borgo abbiamo un “town angel”, una persona del luogo. Non appena arriva l’ospite, lo porta a fare una bevuta al bar del Paese o lo coinvolge in attività nella comunità locale». Così il remote worker inizia subito a prendere confidenza con la sua meta: «Se vai da solo in posto che non conosci, è ragionevole sentirsi a disagio». Tra escape e money coach, agenzie che aiutano a ottenere un visto all’estero, social network e servizi per integrarsi nella comunità locale, la vita da nomade digitale può decollare tra molti cuscinetti. «Prima» ricorda Galeano «la domenica sera avevo l’angoscia. Mi appesantiva l’idea di dover tornare in ufficio… Adesso, aspetto con gioia il lunedì. Nel fine settimana mi sono venute tantissime idee e non vedo l’ora di realizzarle». O quando le si rimanda al martedì o al mercoledì, è una propria scelta libera, di cui nessuno potrà mai più chiedere conto.
