Tartus, un tempo popolare città balneare siriana, è nota agli appassionati di geopolitica per aver ospitato, fino alla caduta del regime di Assad, l’unica base navale russa nel Mediterraneo. Risparmiata in larga parte dalla distruzione della guerra civile, oggi torna a rivestire un ruolo strategico per la Siria. Sarà infatti l’approdo del cavo sottomarino, lungo 8.700 chilometri, che la connetterà al resto del Mediterraneo e fino al Portogallo. II martoriato Paese mediorientale, oggi nelle mani del camaleontico Ahmad al-Shara, si riconnetterà così al traffico Internet globale. E diventerà clamorosamente uno snodo strategico per l’asset su cui il mondo si sfida: l’Intelligenza artificiale.
Il progetto si chiama “Silk Link”, proprio a evocare il congiungimento Oriente-Occidente in un ideale parallelismo con la nuova via della Seta cinese. Grazie a una velocità di trasmissione prevista fino a un massimo di 100 terabyte al secondo, la rete siriana fungerà da hub per convogliare il traffico in arrivo da Iraq, Giordania, Libano e Turchia. Non solo: offrirà al traffico dati in arrivo dall’Asia una rotta alternativa a quella ormai instabile del Mar Rosso.
Soprattutto, e qui sta il punto, spingerà anche in Europa l’Intelligenza artificiale prodotta in Arabia Saudita, Emirati e Qatar. Di fatto, un nuovo petrolio su cui i tre Paesi investono ingentissime cifre e di cui sono già un hub globale.
È questa la loro sfida per la supremazia digitale. È combattuta a suon di investimenti miliardari, accordi prestigiosi, chatbot culturalmente appropriati e infrastrutture all’avanguardia. Il progetto Silk Link siriano potrebbe presto diventare “l’oleodotto” in cui le petromonarchie digitalizzate faranno scorrere il loro nuovo petrolio, invisibile, impalpabile ma fondamentale, per alimentare la transizione digitale dell’economia mondiale.
Divisi dalle rivalità altalenanti, i tre regni affacciati sul Golfo Persico sono uniti in questa impresa. Condividono obiettivo e mezzi. Il primo: la diversificazione delle proprie economie grazie al settore digitale, per ridurre la dipendenza dall’industria petrolifera e del gas comunque utili, nel frattempo, a saziare la mostruosa fame energetica dei data center e ad abbatterne quindi i costi. Il secondo: diventare padroni del loro futuro, se il futuro è l’Ia. L’aspirazione non dichiarata è rappresentare un’area egemonica per i decenni a venire nei settori di difesa, cibersicurezza, energia, sanità, clima e altri ancora. Magari attrattiva anche verso altri Paesi. In un certo senso, una “terza via” rispetto a Occidente e Cina.
Tornando al primo punto, vitale – ovvero diversificare dal petrolio – la transizione dagli idrocarburi agli algoritmi è stata messa nero su bianco dall’Arabia Saudita attraverso la sua Vision 2030, il piano di sviluppo fortemente voluto dal discusso principe ereditario Mohammed bin Salman. La strategia nazionale sull’Ia saudita è ben più radicale e ambiziosa di quanto si pensi: Riad non vuole solo diventare un esportatore di questa tecnologia, bensì anche integrarla in ogni aspetto della sua vita sociale ed economica.
Yasmina Asrarguis, ricercatrice associata presso la Princeton University, in un articolo per il settimanale francese Le Nouvel Obs ha delineato la portata massiccia della rivoluzione digitale in corso nel Paese che ospita la Mecca: «Un milione di cittadini saranno formati alle competenze di base nell’ambito dell’Intelligenza artificiale e della gestione dei dati (…). L’obiettivo è quello di migliorare le competenze a livello nazionale, dalla semplice alfabetizzazione digitale alla formazione di specialisti tecnici». E Neom, la futuristica città lineare da 500 miliardi di dollari, fungerà da laboratorio vivente per la piena integrazione dell’ultima frontiera.
Anche i rivali emiratini, nel frattempo, si muovono per mettere i cervelli digitali al servizio del Paese, tramite la partnership con Etisalat Digital e Alibaba Cloud, filiale informatica del noto portale di e-commerce cinese, per sviluppare progetti avanzati nel campo delle smart city. Lo scorso aprile il primo ministro degli Emirati, nonché sovrano di Dubai, sceicco bin Rashid Al Maktoum, ha annunciato che il Paese tanto amato da miliardari e influencer diventerà la prima nazione a impiegare l’Ia per stilare ed emendare le leggi nazionali.
Il Qatar, dal canto suo, ha stretto una partnership con l’americana Scale Ai per integrare la tecnologia nei servizi pubblici: presto, a valutare gli studenti qatarioti o a eseguire diagnosi precoci ai pazienti degli ospedali di Doha potrebbe essere un algoritmo.
Le partnership sono uno dei campi principali dove la competizione tra i tre sfidanti coronati si fa più accesa, su tutti i livelli. A partire dal vertice della piramide, con un ping pong di intese strategiche siglate con gli alleati occidentali: a quella tra Qatar e Regno Unito l’anno scorso hanno risposto a febbraio gli Emirati, con l’accordo con Washington per realizzare ad Abu Dhabi il più grande campus dedicato all’intelligenza artificiale al di fuori del territorio americano. A cui ha ribattuto l’Arabia Saudita questo novembre, sempre insieme alla potenza a stelle e strisce.
Emiri e sceicchi stringono mani e accordi anche con i big americani dell’informatica, tra cui Microsoft, che ha annunciato investimenti per 1,52 miliardi di dollari per migliorare in modo sostanziale le proprie capacità di cloud computing e Ia negli Emirati, e Nvidia, che costruirà in Arabia Saudita alcune fabbriche dell’Ia alimentate da migliaia di processori di ultima generazione dell’azienda statunitense.
Infine, il vasto mare delle start-up. I tre regni sgomitano per attrarre in casa propria, e poi acquisire, queste pioniere della frontiera avanzata della digitalizzazione. Investimenti miliardari grazie ai fondi sovrani, sgravi fiscali, infrastrutture all’avanguardia e talenti a libro paga sono le sirene dal canto irresistibile per tutti i founder smanettoni. Dove non bastano, gli emiri vanno a prenderle direttamente nella Silicon Valley americana, facendo shopping a colpi di venture capital. Le cifre parlano da sole: dai 5 miliardi di dollari che Aws, veicolo d’investimento del fondo saudita Public investment fund (Pif), ha messo sul piatto per realizzare una nuova Ai Zone nel regno, alle 10 mila imprese dedicate all’Ia che gli Emirati intendono avere in casa entro i prossimi cinque anni.
Ambizione ultima è quella di sviluppare chatbot e altre applicazioni proprietarie. Per poterle vendere e controllare.
I sauditi a maggio hanno lanciato Humain, ecosistema integrato di Ia. Il suo fiore all’occhiello è ALLaM 34B, il modello fondazionale di Humain Chat. Un ChatGpt arabo insomma. Addestrato su oltre 500 miliardi di “token”, è riconosciuto come il sistema Ia “Arabic-first” più avanzato sul pianeta grazie a una “identità culturale” che comprende le sfumature dialettali e i contesti storici e religiosi dettati dall’islam. E gli arabofoni costituiscono un mercato da oltre 400 milioni di consumatori (mentre i musulmani nel mondo – va ricordato – sono circa 2,3 miliardi). Il ceo di Humain, Tareq Amin, l’ha detto chiaramente: l’Arabia Saudita intende diventare il terzo mercato al mondo per Intelligenza artificiale, dopo Stati Uniti e Cina.
Intanto però i cugini di Abu Dhabi questo Humain non l’hanno ancora accettato: per ora preferiscono incoronare Google Gemini come l’Ia più accurata per la popolazione araba. Al contempo cercano di imporsi strategicamente sul continente che registra la crescita demografica ed economica più rapida al mondo: l’Africa. Regione in cui i tre regni del Golfo sono già profondamente radicati in termini economici (118 miliardi investiti in quattro anni) e politici. E quest’influenza sarà rafforzata ulteriormente: la monarchia emiratina ha lanciato (durante il G20 di fine novembre tenutosi a Johannesburg, Sudafrica) il progetto “Ai for Development initiative”: 1 miliardo di dollari destinati a promuovere le infrastrutture digitali e l’Ia in tutto il continente nero.
Dal Golfo, i nuovi padroni dell’Ia non dimenticano comunque di guardare anche al Vecchio Continente, Italia compresa: lo scorso maggio, durante la terza edizione di Investopia Europe, a Milano, l’italiana iGenius, oggi Domyn, ha stretto un accordo da 600 milioni di euro con l’emiratina G42, attraverso la controllata Core42, per realizzare un supercomputer destinato a diventare il più potente centro di calcolo Ai in Italia. Con un nome poco innovativo, ma sempre di grande suggestione: Colosseum. Perché tutto si può dire dell’intelligenza artificiale, meno che non pensi in grande.
