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La grande sete dell’Intelligenza artificiale

La grande sete dell’Intelligenza artificiale

Da OpenAI a Microsoft, a Google. Le Big tech hanno bisogno di server sempre più potenti per il funzionamento dei nuovi sistemi. Ma cresce, per raffeddarli, anche il consumo di acqua. Così la rivoluzione digitale va a pesare sull’ambiente.


Ha decretato la fine prossima ventura dei motori endotermici, ha lanciato una crociata contro gli imballaggi anche se riciclati, ha messo al bando la plastica, ha invaso le città di pannelli fotovoltaici e le campagne di pale eoliche, ma non una parola sulla tecnologia digitale. Anzi per Bruxelles, tutto ciò che corrisponde a questo aggettivo è buono e giusto. Forse perché il web non emette fumi tossici o non disbosca le foreste o non riversa liquami negli oceani. Ma le Big tech non sono affatto rispettosi dell’ambiente. L’ultima frontiera, l’Intelligenza artificiale (Ia), ha un impatto ambientale, forse superiore, alla tanto vituperata industria fossile. I data center che dell’economia digitale sono il fondamento, per funzionare hanno bisogno di acqua, tanta acqua. E in un pianeta in cui questo elemento è prezioso, al pari del petrolio, l’Ia non si può considerare un alleato dell’ambiente.

Un pool di ricercatori dell’Università della California, Riverside, analizzando l’ultimo rapporto sull’ambiente di Microsoft, tra i finanziatori di OpenAi, ha aperto il tema della sostenibilità della nuova tecnologia. Microsoft ha rivelato che il consumo globale di acqua è aumentato del 34 per cento dal 2021 al 2022 (fino a quasi 1,7 miliardi di galloni, ovvero più di 2.500 piscine olimpioniche), in forte aumento rispetto agli anni precedenti. Secondo il ricercatore Shaolei Ren, «la maggior parte della crescita è dovuta all’Intelligenza artificiale», compresi «i suoi pesanti investimenti nell’Ia generativa e la partnership con OpenAi». Una conferma della sete delle Big tech è arrivata da Google che dopo una lunga politica di segretezza sul suo fabbisogno idrico, dalla fine del 2022 ha abbracciato la strategia di trasparenza. Ne è emerso che nel 2021 i suoi data center degli Stati Uniti hanno consumato 16 miliardi di litri d’acqua, di cui quasi la metà in due soli centri di grandi dimensioni in Iowa e Oklahoma. Una cifra paragonabile al consumo di 29 campi da golf.

Gli studiosi stimano che ChatGpt consumi mezzo litro di acqua dalle cinque alle 50 domande (prompt) che vengono poste. Lo scorso aprile un altro studio dell’Università del Colorado Riverside e dell’Università del Texas di Arlington, ha calcolato che l’addestramento di ChatGpt-3, la versione precedente a quella attuale, ha consumato 700 mila litri di acqua dolce per il raffreddamento del data center. E lo scambio di conversazioni di un utente medio con ChatGpt equivale al consumo di una bottiglia di acqua. Bluefield Research ha stimato che i data center utilizzano oltre un miliardo di litri di acqua al giorno, compresa l’acqua utilizzata per la generazione di energia.

La gravità del problema è stata evidenziata dalla stampa americana quando lo scorso anno, il piccolo comune di The Dalles, in Oregon, nell’ovest degli Stati Uniti, è stato trascinato in tribunale dal quotidiano The Oregonian perchè rendesse nota l’entità dei prelievi idrici di un centro elaborazione dati che appartiene a Google. Il quotidiano ha riportato che secondo i dati forniti, il consumo idrico del colosso web è quasi triplicato negli ultimi cinque anni e i suoi data center consumano più di un quarto di tutta l’acqua utilizzata dalla città. Non è la prima volta che le comunità del sud degli Stati Uniti, alle prese con un clima sempre più arido devono fare i conti con un consumo aggiuntivo di acqua causato da un data center; è successo a Mesa, in Arizona, e Chandler, in Nevada.

Perchè l’Ia richiede tanta acqua? I grandi stabilimenti che ospitano i server con i dati necessari alle funzioni del web, cioè i data center, si surriscaldano e hanno bisogno di essere raffreddati. L’acqua è preferibile alle ventole alimentate dall’elettricità che sarebbe più dispendiosa. Con il meccanismo delle torri di raffreddamento, un flusso idrico è esposto a una corrente d’aria in uno scambiatore di calore, in modo che l’evaporazione raffreddi il circuito. Il sistema richiede grandi quantità di acqua. Secondo uno studio dell’Università di California, una torre di raffreddamento ne consuma solitamente da uno a quattro litri (fino a nove in estate) per ogni kWh di energia del server. Nel mondo esistono almeno 6.300 data center. Più di tremila si trovano negli Stati Uniti. Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, in Italia il settore ha un fatturato di circa tre miliardi di euro per un totale di 190 data center (se ne stimano 204 entro il 2025) e una potenza installata complessiva di 300MW.

Con una quota di mercato del 9 per cento a livello Ue, l’Italia è al quarto posto nella classifica dei Paesi europei per importanza di questi «magazzini» di dati. «Le infrastrutture di data center sono strategiche per la competitività del nostro ecosistema digitale. Nel corso degli ultimi anni, ne sono state aperte numerose» spiega Emmanuel Becker, amministratore delegato di Equinix Italia, il principale fornitore mondiale di infrastrutture digitali, e presidente di Ida (Italian data center association), l’associazione nazionale dei costruttori e operatori di data center. Ida aderisce al Climate Neutral Data Center Pact, un accordo tra un’ottantina di aziende europee di settore per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2030. E tra gli obiettivi c’è il minor consumo di acqua. «Vogliamo far comprendere a mercato e istituzioni, ma anche all’opinione pubblica, che il comparto dei data Center sta facendo passi da gigante per l’efficientamento energetico e rispetto dell’ambiente» aggiunge Becker.

Intanto, però, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale impone l’aumento di tali infrastrutture anche in aree come l’Africa, il Medio Oriente e l’Europa meridionale, dove il problema idrico è importante. Nel 2022 la società di rating Sustainalytics ha pubblicato uno studio sulla gestione dell’acqua da parte delle Big tech mondiali. Solo il 16 per cento delle aziende ha fornito agli analisti informazioni sufficienti a calcolare il consumo idrico sull’intera filiera. Tra quelle che lo hanno fatto, il 61 per cento ha ricevuto una valutazione insufficiente e solo il 5 per cento una pienamente positiva. La maggior parte delle Big tech ha comunque dichiarato impegni ambiziosi per il prossimo futuro. Microsoft e Google si sono impegnate a diventare «water positive» entro il 2030 cioè a immettere in falda almeno la stessa acqua di quanta ne prelevano. L’azienda fondata da Bill Gates ha detto di volerne reintegrare il 45 per cento di quella prelevata nel 2021, circa due milioni di metri cubi. Meta lo scorso anno ha ripristinato circa 2,3 milioni di metri cubi. Ma si tratta di «gocce nel deserto».

«La diffusione dell’Intelligenza artificiale richiede processori più potenti. Ma i chip per l’Ia, gli acceleratori, generano più calore rispetto ai chip standard e i data center hanno bisogno di sistemi di raffreddamento più importanti. Servirà sempre più acqua» afferma Giovanni Brussato ingegnere minerario, autore di numerosi libri sull’impatto ambientale delle nuove tecnologie. E aggiunge: «La narrazione corrente dice che il consumo idrico maggiore si ha in agricoltura. Ma il dato va contestualizzato. Negli Stati Uniti l’industria assorbe il 37 per cento di acqua mentre in India il 90 per cento dei prelievi va all’agricoltura e solo 2 all’industria. Però si stima che nel 2024 in questo Paese il fabbisogno agricolo scenderà al 65 per cento e quello industriale salirà al 22. In Cina il prelievo d’acqua per energia nel 2030 sarà oltre il 75 per cento in più rispetto al 2015». Secondo Brussato quindi «per valutare l’impatto di un data center sulle risorse idriche, bisogna considerare la disponibilità di acqua in quel determinato territorio invece spesso si fa riferimento al fabbisogno di tutto un Paese».

Gli operatori di data center «hyperscale», quelli con oltre cinquemila server, si stanno spostando verso luoghi dove l’acqua è abbondante, come la Norvegia, ma anche dove costa meno, nonostante la siccità sia più frequente, come Italia e Spagna. In ogni caso, a partire da marzo 2024, la Commissione europea richiederà agli operatori di comunicare il loro consumo di energia e acqua. Come evitare che i colossi tecnologici si trasformino in idrovore? Secondo Brussato servirebbe un’Authority nazionale in grado di valutare l’impatto dei data center sulla località dove sono ubicati. Quindi un controllo. Appare però difficile considerato che a stento le Big tech forniscono i dati sulla loro «sete».

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