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Pagherai tutto, fino all’ultimo dato

Pagherai tutto, fino all’ultimo dato

I magistrati di Milano e la Guardia di Finanza chiedono 870 milioni a Facebook: sostengono che l’iscrizione gratuita ai social in cambio delle informazioni sugli utenti sarebbe un baratto soggetto all’Iva. Una tesi rivoluzionaria. Ma gli esperti sono scettici: come si fa a determinare il valore dei servizi scambiati?


Se avrà successo, l’ultimo attacco partito dal palazzo di giustizia di Milano contro le multinazionali del web potrebbe avere un effetto dirompente sull’intero universo dei servizi offerti su internet e in particolare sui social network: i dati che forniamo alle aziende hanno un valore e quindi la loro cessione, seppur gratuita, va tassata. A sostenere questa tesi è la Procura milanese che ha inquadrato nel suo mirino Meta, la casa madre di Facebook, Instagram, WhatsApp. I magistrati contestano alla società di Mark Zuckerberg l’omesso versamento dell’Iva per quasi 870 milioni di euro, di cui 220 milioni soltanto per il 2021. Ma da dove arriverebbero tutti questi soldi se nessuno di noi sgancia un solo euro per iscriversi al social?

In pratica l’utente accede gratuitamente ai servizi offerti dalle piattaforme di Meta, ma in cambio fornisce i propri dati. Che, opportunamente elaborati, vengono sfruttati dai network per offrire agli inserzionisti una accurata, seppur anonima, e ben remunerata profilazione dei navigatori sul web. Insomma, hanno un valore. Dunque, secondo i magistrati e la Guardia di Finanza che collabora con la Procura, lo scambio «dati-iscrizione» sarebbe un baratto: anzi, tecnicamente una «permuta di beni differenti». E quando vi è una permuta con la cessione di beni o prestazioni in cambio di servizi, l’operazione è soggetta separatamente al regime Iva. Proprio effettuando una serie di calcoli su questa presunta permuta, il Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano avrebbe quantificato in 870 milioni l’omesso versamento dell’Iva per gli anni che vanno dal 2015 al 2021.

Ma questo ragionamento ha un fondamento? Se lo avesse, le conseguenze sarebbero enormi perché tutti noi di continuo compiliamo «form» per accedere a servizi gratuiti, e tantissime società ben più piccole di Meta o Google si troverebbero a versare una tassa in più su questo baratto e forse sarebbero costrette a farsi pagare. È la fine di internet gratis? Facebook respinge le accuse: «Prendiamo sul serio i nostri obblighi fiscali e paghiamo tutte le imposte richieste in ciascuno dei Paesi in cui operiamo» è la posizione dell’azienda. «Siamo fortemente in disaccordo con l’idea che l’accesso da parte degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell’Iva. Come sempre, siamo disposti a collaborare pienamente con le autorità rispetto ai nostri obblighi derivanti dalla legislazione europea e nazionale».

I magistrati milanesi hanno buoni appigli su cui far leva: nel 2018 la nostra Autorità garante della concorrenza multò Facebook per pratiche commerciali scorrette riguardanti «la raccolta, l’utilizzo e lo scambio con soggetti terzi dei dati personali degli utenti-consumatori». L’Antitrust accusava la società, tra l’altro, di non esplicitare le «finalità remunerative sottese alla fornitura del servizio del social network». Facebook presentò ricorso al Tar del Lazio, che nel 2020 diede in parte ragione al social network ma stabilì una cosa importante: «I dati personali possono costituire un asset disponibile in senso negoziale, suscettibile di sfruttamento economico e, quindi, idoneo ad assurgere alla funzione di controprestazione in senso tecnico di un contratto». Un assist per la Procura? In apparenza sì, ma manca un dettaglio fondamentale: il valore della transazione. Nel 2018 le autorità tedesche chiesero il parere del Comitato Iva presso la Commissione europea su questo tema e la risposta fu che la fornitura di dati non è una prestazione di servizi imponibile: «Si deve intendere che una prestazione di servizi è imponibile solo se esiste un rapporto diretto tra il servizio prestato e il corrispettivo ricevuto, da cui consegue che questa è effettuata solo a titolo oneroso e, quindi, è imponibile solo se le due parti intrattengono un rapporto giuridico in cui si scambiano prestazioni reciproche e la remunerazione ricevuta dal soggetto che effettua la prestazione costituisce il valore effettivo del servizio reso al destinatario».

«Come cittadino italiano sarei contento se la Procura di Milano ottenesse l’ennesimo successo facendo incassare altri soldi allo Stato, ma come uomo di diritto sono molto perplesso» commenta Tommaso Di Tanno, tributarista di fama: ha insegnato diritto tributario nelle Università di Roma (Tor Vergata), Siena e Cassino ed è docente al Master tributario dell’Università Bocconi. Da uomo di legge Di Tanno ha il fondato dubbio che la permuta considerata dai magistrati non lo sia da un punto di vista tecnico: «Quando do in permuta la mia auto e ne acquisto una nuova, il concessionario si basa su dati di mercato, la mia vettura ha un valore. Ma che valore attribuiamo ai dati forniti da me, da lei o da una persona molto più importante di noi? E di quali servizi usufruiremo in cambio? C’è chi li utilizza tantissimo, chi pochissimo. Il valore dovrebbe cambiare in funzione del loro uso. Ma il diritto tributario si deve basare su criteri di determinazione dei valori certi e omogenei. Se c’è un baratto occorre determinare quanto valgono beni e servizi barattati. Se non c’è un corrispettivo, lo scambio non è rilevante ai fini dell’Iva. A meno che non si tratti di uno scambio a titolo gratuito previsto come tassabile dal legislatore». Insomma, non sembra facile tradurre in categoria giuridica lo scambio «dati-iscrizione gratuita» al social network.

Vedremo come andrà a finire: è anche possibile che Meta, per evitare di finire invischiata in un processo, accetti una transazione. La tesi della Procura non farebbe giurisprudenza e il mondo digitale potrebbe andare avanti senza cambiamenti, con alcuni grandi big del settore pronti ad accettare il rischio di dover transare con il fisco. Come del resto è già avvenuto in passato con tanti gruppi internazionali. Infatti la squadra di magistrati del Secondo dipartimento della Procura di Milano, quello che si occupa di diritto penale dell’economia e dunque anche di reati societari e fiscali, è diventato una bestia nera dei colossi digitali. Negli anni scorsi ha usato l’arma della «stabile organizzazione occulta», accusando le imprese del mancato pagamento delle imposte sul reddito in Italia pur vendendo nel nostro Paese prodotti e servizi. E quasi sempre le società hanno transato.

Nel 2015, per esempio, Apple ha chiuso i conti con l’erario pagando 318 milioni di euro, dopo che era stata accusata di presunta evasione fiscale da 900 milioni di euro. Nel 2017 Google ha patteggiato e ha versato 306 milioni di euro all’Agenzia delle entrate. Poi è toccato ad Amazon, il gigante dell’e-commerce capitanato da Andrew Jassy. L’anno successivo la stessa Facebook ha sganciato all’Erario oltre 100 milioni di euro. Complessivamente negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha incassato oltre 3,5 miliardi grazie alle indagini fiscali condotte dalla Procura milanese e dalla Guardia di Finanza. Ultima vittoria quella riguardante Netflix, che rappresenta un caso unico in ambito mondiale, dicono in Procura: viene ipotizzata l’esistenza di una stabile organizzazione occulta di una società estera operante nella digital economy, completamente priva di personale e poggiata solo su una struttura tecnologica. Struttura che «sarebbe stata asservita in via esclusiva allo svolgimento di funzioni aziendali chiave per la conduzione del proprio business sul territorio dello Stato» sottolinea la Procura milanese in un comunicato. Il colosso americano dello streaming, guidato da Theodore Sarandos, ha concluso il contenzioso con l’Agenzia delle entrate versando 55 milioni e 850 mila euro per definire ogni pendenza per il periodo dall’ottobre 2015 fino al 2019. E dal 2022 ha aperto una sede in Italia. La Procura ha messo a segno una serie di straordinari successi, che però hanno un retrogusto amaro: perché alla fine sembra mancare un quadro giuridico certo a livello europeo che permetta di tassare in modo equo il mondo delle imprese digitali, apolidi per natura. E oggi non più tanto prospere.

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