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eSport, la nuova frontiera del gioco che vale miliardi e conquista anche l’Italia

eSport, la nuova frontiera del gioco che vale miliardi e conquista anche l’Italia

Videogiocare è diventato un’industria mondiale miliardaria. Quasi 250 milioni di persone si scontrano in Rete e 3,3 milioni di italiani assistono ogni settimana a eventi in cui si sfidano i “campioni”. Ricoperti d’oro da sponsor sempre più grandi

Si praticano (o si guardano) a casa. Vanno in scena in arene virtuali e hanno la forza di una nuova religione laica (che muove miliardi di euro). Protagonisti sono gli eSport, o “sport elettronici”, cuore pulsante di una rivoluzione silenziosa e redditizia. Un vero fenomeno degli ultimi anni. Tecnicamente definibili come “videogiochi competitivi a livelli professionistici” affondano le loro radici negli anni Settanta, e per la precisione nel 1972, quando si tenne il primo torneo di Spacewar! all’Università di Stanford. L’attività passa attraverso le sale giochi negli anni Ottanta, esplode a fine anni Novanta grazie alla banda larga e oggi occupa interi stadi (non solo virtuali) e genera un mercato impressionante, che ha fatto di un hobby di nicchia un’industria globale miliardaria, dove atleti stipendiati non competono più per la gloria, ma per montepremi da nababbi. Quasi 250 milioni di appassionati nel mondo. E siamo solo all’inizio…

In Italia per anni, la narrazione ha relegato il videogioco competitivo a un passatempo per qualche adolescente. Si tratta però di un pregiudizio che si scontra contro il muro dei dati. L’ultimo rapporto redatto da IIDEA (l’associazione che rappresenta l’industria dei videogiochi nel nostro Paese) in collaborazione con Deloitte, fotografa la trasformazione. Il numero di italiani che hanno assistito a un evento di eSports almeno una volta negli ultimi sei mesi del 2024 ha toccato quota 7,3 milioni. Ancora più indicativo è lo zoccolo duro degli appassionati: 3,3 milioni di italiani che guardano  ogni settimana almeno una competizione di videogiochi.

A sorpresa, l’identikit dello spettatore italiano di eSports è maturo: il profilo dominante è maschile (68 per cento), ma è l’età a far riflettere: la fascia più rappresentata, nel 47 per cento dei casi ha tra i 25 e i 44 anni. Le analisi raccontano un lavoratore a tempo pieno con un reddito medio-alto. Tifosi decisamente appetibili in termini di marketing: uomini inclini alla spesa, abituati a pagare per abbonamenti digitali (come Twitch o YouTube Premium) e in grado di acquistare merchandising, hardware costosi e contenuti esclusivi. Un piatto ricco.

Dettaglio geografico: molti di questi appassionati non vivono nelle grandi metropoli iper-connesse come Torino o Roma, ma risiedono in piccoli centri urbani, che così diventano parte di un’immensa piazza digitale che abbraccia l’Italia e il resto del mondo. Fulcro del business e degli eventi rimane Milano – a cominciare da appuntamenti come la Milan Games Week & Cartoomics -, ma diventano periodicamente capitali del settore anche città come Lucca (con il Comics & Games) e Napoli (con il Comicon).

Il Comitato olimpico internazionale (Cio) sta già sperimentando le “Olympic Esports Series”, e le federazioni sportive nazionali stanno correndo ai ripari integrando le versioni digitali dei loro sport nei calendari ufficiali. Ma a scandire il tempo degli appassionati sono gli eventi internazionali come la World Esports Championship 2025 (WEC25), la competizione targata IESF che ha portato in scena a Kuala Lumpur a inizio dicembre le rappresentative nazionali di oltre 100 Paesi.

Il termine “eSports” potrebbe risultare nebuloso, ma in realtà è un ecosistema complesso, strutturato in discipline diverse, esattamente come le Olimpiadi dividono l’atletica dal nuoto o dalla scherma. La parte del leone la fanno i cosiddetti Moba (Multiplayer online Battle arena), declinato in titoli come League of Legends o Dota 2: due squadre, una mappa strategica, l’obiettivo di distruggere la base avversaria. Qui non conta solo la velocità di esecuzione, ma la strategia, il coordinamento in team, la gestione delle risorse. Poi ci sono gli Fps (First person shooter), in gergo “sparatutto”. Un esempio? I titoli Counter-Strike, Valorant, Call of Duty.

Ma ci sono anche altre categorie di eSports per videogiochi: con le carte, di combattimento corpo a corpo (i “picchiaduro”), di ballo, di corse automobilistiche e via citando. Cruciali per il mercato italiano sono quelli delle Simulazioni sportive. In un Paese che respira calcio, titoli come EA Sports FC (l’erede di Fifa) che puntano a replicare lo sport reale – stesse regole, stesse squadre, stessi idoli – sono molto seguiti. Da notare come i grandi club – Milan, Inter, Juventus e altri – abbiano già creato le loro divisioni virtuali, trattando i pro-player “digitali” esattamente come i calciatori veri: nutrizionisti, mental coach e contratti blindati. E come i giocatori veri siano oggetto di mercato. Solo un esempio: in novembre ha fatto notizia il Como calcio, che dopo aver stupito per la sua campagna acquisti nel campionato reale, ha messo sotto contratto il “Maradona degli eSports”, il danese Anders Vejrgang, famoso per l’incredibile striscia di vittorie (quasi 550).

Al centro di tutto restano comunque i fenomeni di massa non sportivi ma “di sopravvivenza” (definiti Battle Royale dal titolo di un vecchio film giapponese) come Fortnite, dove cento giocatori atterrano su un’isola e ne deve restare vivo soltanto uno. È il Darwinismo digitale applicato all’intrattenimento: caos, lotta, spettacolo puro trasmesso in streaming e guardato dagli appassionati.

Chi gioca deve conoscere il vocabolario giusto. Per esempio “caster”, per indicare il telecronista delle partite; “streamer”, cioè chi trasmette le proprie partite in diretta interagendo con il pubblico; “pro-player”, ovvero i giocatori professionisti stipendiati.

La vera rivoluzione, tuttavia, non è né nello slang né tecnologica, ma economica. Fino a dieci anni fa, l’industria dei videogiochi seguiva un modello semplice: creava un prodotto, lo metteva in scatola e te lo vendeva. Oggi gli eSports hanno ribaltato il tavolo. Nel 2023 hanno superato il miliardo di dollari di ricavi. L’Italia ne rappresenta ancora una frazione in termini di fatturato diretto, ma il potenziale di crescita stimato dagli analisti è a doppia cifra per i prossimi tre anni, trainato dall’ingresso di nuovi sponsor extra-settore. Ormai il gioco è spesso gratuito (Free-to-Play) e il guadagno delle multinazionali creatrici non sta nell’accesso, ma nell’ecosistema che si crea attorno. In Italia, l’80 per cento delle entrate generate dal settore eSports non proviene dalla vendita del software, ma da pubblicità e sponsorizzazioni. In questo modo, le competizioni di videogiochi sono a tutti gli effetti una piattaforma mediatica. Brand “non endemici” – ovvero aziende che non c’entrano nulla con i computer – stanno invadendo il campo. Tra queste spiccano assicurazioni, case automobilistiche, banche, catene di fast food e perfino marchi di alta moda. Un esempio? Gucci e Armani hanno “vestito” alcuni team di eSports. Il fine è quello di parlare alle generazioni Y e Z. Si tratta di un cambio di paradigma totale. Le organizzazioni di eSports, come i giganti italiani QLASH (fondato da Luca Pagano) o Mkers, o gli organizzatori di eventi come PG eSports, non sono semplici “squadre” ma vere e proprie media company che producono contenuti, influenzano opinioni e muovono capitali.

E poi i talenti. Come Riccardo “Reynor” Romiti, senese, classe 2002: il prodigio italiano che ha conquistato il tetto del mondo con il videogioco fantascientifico di strategia StarCraft II. Ha raccontato dedica circa nove ore al giorno ad analisi dei replay avversari e sessioni in palestra per mantenere postura e resistenza fisica (necessaria per reggere lo stress mentale di un torneo). Di certo la carriera di questi talenti è brevissima: il burnout è dietro l’angolo. Esattamente come per gli sportivi in carne e ossa.

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