Si arriva a Venezia come in una città aliena. Nell’anno del Covid la Serenissima è irriconoscibile. Oggi alle strade affollate – testimonianza di come fosse la meta d’elezione del turismo di massa – si sovrappongono incredibili cartoline di calli e campi deserti. Intorno, musei civici chiusi, hotel di lusso e i caffè storici che neanche ipotizzano una riapertura, artigiani e ristoranti arresi al fallimento. I dati raccontano una città che ha vissuto la pandemia come uno spartiacque capace di rivelarne l’intrinseca fragilità. Al 31 dicembre 2019 contava 8.475 attività commerciali che movimentavano quasi 24 mila addetti e 1.760 tra strutture alberghiere ed extralberghiere che impiegavano in media annua 9.350 persone. Il passato è d’obbligo. Lo riconosce Massimo Zanon, presidente della Confcommercio di Venezia: «Oltre il 10 per cento di imprese erano in odore di totale chiusura a fine 2020, ma il pericolo di arrivare al 20 per cento è ogni giorno più vicino». Parliamo, numeri alla mano, di quasi 3 mila attività.
Un dramma che tocca anche uno dei simboli della Laguna: i gondolieri. Lo racconta a Panorama Andrea Balbi, presidente dell’Associazione Gondolieri Venezia con oltre 600 associati. Lo incontriamo in una San Marco deserta, bellissima, con una luce che taglia il cielo in due. Alle spalle il mare, e decine di imbarcazioni ferme. «Da ottobre ho avuto solo due clienti, entrambi veneziani. La comunità dei gondolieri vive un momento tragico. Alcuni miei colleghi ora fanno altri lavori, chi l’elettricista, chi l’idraulico. Il nostro è un impiego stagionale, ma anche l’estate 2020 si è rivelata un flop. Se continua così non perderemo solo le gondole, ma anche gli artigiani che le fanno sopravvivere al tempo». Oggi sono solo tre gli squeri attivi a Venezia, gli ultimi baluardi di una tradizione secolare che rischia di venire smarrita per sempre.






Allarme condiviso da centinaia di attività della Laguna. Prima hanno rischiato di essere annientate dalla caccia al profitto legata al turista, ora soffrono perché non si rivelano allettanti per i cittadini. «Ho chiuso il mio negozio di abbigliamento» racconta Chiara «perché non volevo ipotecare la casa per sostenere un affitto che non mi è stato ridotto di un centesimo: pagavo 6 mila euro al mese per un bugigattolo vicino a Rialto, quando a settembre ne ho incassati parecchi meno».
Secondo Zanon, nell’ultimo anno ci sono stati da parte della politica «troppi annunci e dilettantismo. Le risorse non hanno mantenuto le aspettative». Il risultato della sequela impressionante di restrizioni, stando ai dati di Confcommercio, è un fatturato crollato del 70 per cento per alcuni, del 90 per altri. «La mancanza dei flussi turistici ha innescato una sorta di moltiplicatore negativo dell’economia veneziana» dice Zanon. Un moltiplicatore che vale miliardi di euro, se si pensa che si è passati dalle 12.948.519 presenze nel 2019 a 3.662.170 l’anno scorso. Un arresto cardiaco che nessun defibrillatore pare in grado di rianimare.
«Venezia» spiega Vania Gobbi, un’esperienza decennale nel settore turistico «ha basato la propria economia quasi totalmente sugli stranieri. Di conseguenza, siamo in ginocchio. Accompagnatori turistici, guide e agenzie di viaggio non hanno grandi prospettive di miglioramento». Anche a Murano la situazione è disperata: «Le grandi vetrerie sono chiuse da mesi. I dipendenti sono in cassa integrazione, e molte saranno costrette a chiudere definitivamente». Passeggiando per la Serenissima si entra in un paesaggio spettrale, anche gli hotel più noti si sono fermati. Alberghi come Colombina, Mori d’Oriente e La Commedia hanno sospeso le prenotazioni consentendole solo dal 1° aprile. Peggio per le strutture a conduzione familiare: «Alcuni piccolissimi hotel hanno già chiuso e molti rischiano di non aprire più» conferma Zanon. Sbarrati i locali di piazza San Marco: il caffè più antico del mondo inaugurato nel 1720, il Florian, che nelle sue preziose sale ha visto passare Marcel Proust e Gabriele D’Annunzio, è fermo perché i costi di gestione non permettono una riapertura senza i turisti americani e orientali. L’amministratore Marco Paolini sconsolato spera nella primavera, mentre al caffè Lavena non si azzardano previsioni.
A guardare con interesse la situazione è il Dragone cinese, che qui ha già iniziato a fare affari. Se nel 1998 le imprese attive registrate a nome di cittadini cinesi erano in tutto 45, ora sono 850. Un dato sottostimato: non sempre il passaggio di proprietà è esplicito, di rado la società acquirente è direttamente riferibile a un soggetto cinese. «Quel che è certo però» spiega Zanon «è che in una situazione del genere la possibilità di avere soldi non limpidissimi è forte». Il dubbio degli investigatori è che dietro questo business sempre più florido ci sia la criminalità orientale, e sono in corso indagini incrociate per capire la provenienza degli ingenti capitali. A queste preoccupazioni si affiancano i riflessi reali nei conti pubblici. Dai dati della Guardia di finanza regionale emerge come non sempre le società cinesi siano puntuali nel pagare le tasse: dal punto di vista erariale, al 31 gennaio 2019 ci sono 10.214 codici fiscali di imprenditori cinesi che devono 867 milioni di euro al fisco.
E mentre tra poco il bar gelateria Da Nini, accanto al ponte delle Guglie, dopo quasi 50 anni di attività cederà il posto a proprietari cinesi, c’è chi resiste. Come Alessandra Defranza, titolare con il marito Renato Gastaldi dello storico negozio Piedaterre specializzato in friulane. «La verità» sorride amareggiata «è che si lavora il doppio ma, invece di guadagnare, si perde ogni giorno. Il nostro è un prodotto artigianale che vendiamo su richiesta, ce ne occupiamo da una vita e non vogliamo fare un passo indietro». Stesso discorso ci fa, fra i suoi splendidi telai Settecenteschi, il titolare Alberto Bevilacqua dell’omonima, antichissima, tessitura: «Resistiamo grazie al mercato straniero che ci riconosce come eccellenza, ma non è facile».
I tentativi di resistere passano, anche in Laguna, dal mondo online. C’è chi organizza tour privati su Zoom e chi si è ingegnato per trasmettere in Russia e Usa il suo sapere. È il caso dell’artigiano Davide Bellone, che con il negozio di famiglia Ca’Macana produce da oltre 30 anni maschere di carnevale nel sestriere di Dorsoduro: «Le vendite si sono praticamente azzerate, e nella speranza che il turismo riparta ci siamo ingegnati sul web: facciamo corsi, lezioni e piccoli tour partendo dalla nostra esperienza. La pandemia non ha solo ridefinito il panorama urbano, ma ci sta obbligando a fare i conti con un’altra Venezia».
Una Venezia che brilla per la sua eterna meraviglia, e allo stesso tempo pare incubatore di una questione nazionale. Per l’Italia infatti il turismo rappresenta oltre il 13 per cento del Pil, e occupa 4,2 milioni di persone che oggi rischiano di soccombere. «Negli anni è stata vissuta come città luna park, museo all’aria aperta o vacca da mungere. Oggi può cambiare. Il suo futuro dovrebbe essere basato sulla diversità, sulla specificità e sulla dimensione umana come fu al suo esordio. Dovrebbe poter attirare non solo turisti ma anche abitanti» conclude lo scrittore Pieralvise Zorzi, che ha appena pubblicato Storia spavalda di Venezia (Neri Pozza). Di abitanti oggi la Laguna ne conta appena 54 mila, e la pandemia ha messo in evidenza un incredibile paradosso: l’identità a confine fra una bellezza eterna e fragile, legata a un turismo di massa che la distrugge e allo stesso tempo la mantiene.