«È la gratitudine ad accompagnarmi da sempre. Sono grato a tutti quelli che ho incontrato facendo reportage: perfino nelle tragedie sono stato accolto bene. Il mondo con tutti i suoi orrori è anche un posto accogliente». È strano sentir parlare così Paolo Pellegrin, probabilmente il più importante fotogiornalista in attività, membro pluripremiato dell’Agenzia Magnum, che dagli anni Novanta documenta le piaghe del nostro tempo. Ha «coperto» le infinite guerre del Medio Oriente – dalla Palestina all’Iraq al Libano; il Kosovo e l’Afghanistan. E poi le migrazioni da Africa e Asia, come i quartieri devastati dalla povertà degli States; i prigionieri dimenticati di Guantánamo; lo tsunami del 2011 in Giappone e i cambiamenti del clima, dalla Namibia all’Antartide. E ancora, la paura e l’orgoglio, la morte e la solidarietà nell’Ucraina degli ultimi due anni, da dove è appena rientrato. Dice: «Mi ero ripromesso di smetterla con i conflitti, perché ho due figlie. Ma è una guerra che mi pare talmente enorme e gravida di conseguenze. Questo fino all’attacco a Israele e all’invasione di Gaza… Ormai assistiamo a uno scontro mondiale che è combattuto localmente». Con il suo bianco-e-nero che sa essere epico oppure soffuso di sensibilità, Pellegrin è vicino agli esseri umani messi alla prova dalla Storia. Dà sostanza e nuova dignità alla testimonianza attraverso una foto – quella e non un’altra – a fronte dell’interminabile flusso di immagini in cui siamo immersi. Una mostra in corso a Venezia, sull’Isola di San Giorgio, ci fa seguire il suo percorso: oltre 300 scatti di formati diversi, ognuno con una vita dentro. E il titolo che li racchiude è L’orizzonte degli eventi, riprendendo la definizione astronomica per l’orlo di un «buco nero». Che è appunto quello della Storia, che tutto fa precipitare al suo interno, ma da cui il fotografo riesce a mettere in salvo schegge di memoria per chi verrà dopo di noi. Pellegrin è nella sua casa nei boschi della Svizzera, dove vive con la moglie Kathryn e le figlie, Emma e Luna, oggi per lui fondamentali punti di equilibrio. Dall’Ucraina è tornato con la febbre: «Ogni volta che arrivo da un lavoro sono più malandato… forse perché quando mi trovo là cerco di dare tutto, a costo di prosciugarmi». In ogni caso a Panorama si racconta con generosità.
Non è ancora tornato in Medio Oriente, anche se è in procinto di andarci. Ha una sua immagine emblematica di quella terra?
Ogni volta che sono stato a Gaza, mi ha sorpreso il desiderio dei genitori palestinesi di immaginare un futuro migliore per i figli. Ecco che li mandano a scuola sempre col vestito migliore che hanno… C’è un orizzonte di speranza nella vita, non in questa generazione, ma che comunque arriverà.
Da che cosa viene attratto quando scatta un’immagine?
Per me una fotografia ha sempre tre autori. C’è l’incontro, lo scambio tra chi scatta e il suo soggetto. È un dialogo che trova il terzo elemento nello sguardo di chi guarda poi quell’immagine. Attraverso le informazioni, le suggestioni, i dubbi che trasmette, la persona compie il proprio viaggio. Mi interessa la foto che contiene il dato di cronaca, ma aspira a un’eco più grande.
Per esempio?
Mi viene in mente l’immagine della bambina e di sua madre in fuga da un villaggio palestinese nel sud del Libano, nel 2006, durante la guerra tra Hezbollah e Israele. I loro sguardi dicono di una condizione umana generale, dell’erranza, dell’aver lasciato la propria casa forse per sempre.
Oggi la crisi ambientale è un soggetto importantissimo nel suo lavoro.
Forse lo è ancor più delle guerre. Difficilissimo però da affrontare senza banalizzarlo. Allora sono ricorso a uno stratagemma. Non ho voluto ritrarre i mega incendi, le inondazioni, invece ho dato spazio al sublime. Per coinvolgere chi guarda l’immagine non con il trauma del disastro ma attraverso lo stupore, quello che tutti abbiamo provato davanti alla natura.
Nei reportage adesso realizza anche dei video. Perché?
La fotografia ha tanti limiti, ma quando funziona lo è proprio in virtù delle sue mancanze: non ha odore, suoni, né movimento e deve parlare con un solo colpo d’occhio. Al contrario di altre forme comunicative come la televisione, richiede uno sforzo per essere letta. È la sua forza, perché in qualche modo ci mette in gioco. Detto ciò, ci sono situazioni che vivo e mi pare importante comunicare. Il movimento, i rumori, le voci. Penso alle bombe… In guerra hanno il suono che ti impressiona di più. Ti riverberano dentro. Con lo smartphone ho iniziato a girare brevi filmati. E mi sono reso conto che c’era qualcosa che lega l’immagine fissa a quelle che si muovono.
Perché utilizza quasi sempre il bianco-e-nero?
Il colore è troppo legato all’esperienza della realtà. In bianco-e-nero si accede a una dimensione più simbolica. Voglio anche dire che per decenni ho lavorato su un tipo di fotografia «in aggiunta», per farci entrare più vita possibile. Adesso, invece, procedo al contrario. Come nella scultura, tolgo materia per arrivare a un’essenza. Una fotografia con meno cose, che però ne dice altre.





Nel suo lavoro mette al centro i drammi umani. Come fa a non perdere umanità?
Credo alla mia funzione di testimone, al di là della mia dimensione estetica. La fotografia elenca frammenti del reale che sono necessari. Certo, nei miei servizi mi rendo conto di spingermi in un ambito estremo: la vita, la morte, il coraggio, lo spirito, la sopravvivenza, l’amicizia. Tutto qui è senza filtri, senza menzogne, nudo e crudo. Non voglio parlare di senso religioso, perché ho troppi dubbi in proposito; eppure c’è un’idea di sacro e di abisso in cui ti affacci, ma da cui sei anche guardato. È il mistero dell’esistenza a cui ti avvicini.
Nella sua mostra c’è un’immagine potente dell’Ucraina, tratta da un video: le persone di un villaggio che, su una strada di campagna, s’inchinano al passaggio di un feretro.
In quel corteo funebre a Kulychkiv io ci vedo l’onore, il rispetto, la dignità, il coraggio, l’idea di comunità. L’Ucraina è un Paese coeso. E in quell’inginocchiarsi, ripetuto e collettivo, ci trovo tutto questo. Lo spirito umano.
Lei si «censura» in alcune situazioni?
Ho un’intera galleria mentale di immagini non scattate, alcune per pudore, altre per paura. È sempre più difficile per me ritrarre chi vive un momento drammatico. La mia regola è mettermi dalla parte di chi sto fotografando. Mi chiedo come si possa sentire quella persona. Per premere il pulsante dell’otturatore si devono combinare una serie di elementi, altrimenti meglio lasciar stare.
È soddisfatto alla fine di un lavoro?
Sono un eterno scontento! C’è sempre qualcosa di più che si poteva fare… Anche perché vivo un senso di «ultimità»: dopo potrebbe non esserci più un altro reportage.
Tra le sue foto più intense, ci sono quelle «familiari», scattate in Svizzera durante la pandemia. In una, si vede un prato diviso a metà: da una parte l’erba secca dell’inverno, dall’altra la neve…
Quella frattura esprime uno «yin e yang», rappresenta il momento che stavamo vivendo, noi minuscola famiglia come tutto il mondo. Una microstoria che diventa corale.
C’è una sua immagine a cui è più legato?
Difficile scegliere… (esita a lungo). Posso dire questo: hai studiato fotografia, storia dell’arte, hai visto i film di Tarkovskij e, alla fine, in maniera alchemica, tutto ciò si trasforma in sguardo. E si tratta di mestiere… Poi, ogni tanto, accade che le fotografie non le cerchi ma le ricevi. Si crea l’allineamento tra te e le cose del mondo. È nata così la fotografia della bambina in Libano, come quella dello struzzo nella polvere del parco Etosha, in Namibia. Io sono legato a quelle immagini che mi sono state «donate».
Rimpiange la pellicola?
A volte la utilizzo ancora, ma la rimpiango perché è capace di qualcosa che al digitale è negato: contiene la possibilità del mistero e dell’errore. Ricordo quando partivo per questi viaggi di mesi con 200 rullini… Al ritorno, portavo con me dei fantasmi, queste immagini latenti che restavano tali fin quando non sviluppavo le foto. Alcune allora erano come me le ero immaginate, altre differenti, altre non erano proprio venute, altre erano sovresposte. Adesso tutto questo non c’è più: la macchina è perfetta. Il mistero annullato. Per contro, il digitale ha regalato ai fotografi la notte, il poter scattare anche al buio. Abbiamo scoperto un universo parallelo.
Com’è cambiato rispetto a quando ha cominciato a fotografare?
Quello che mi ha cambiato davvero è la paternità. L’empatia per l’altro è diventata molto più forte. Io non so se le fotografie possano cambiare il mondo, probabilmente no. Di sicuro hanno cambiato me. Tutto quello che ho vissuto e testimoniato ha lasciato segni. Profondi. E alimenta un senso di responsabilità, quello di «dare voce», a cui un fotografo non può che tenere fede.
