Sono quelli abbandonati, cui si aggiungono altre migliaia di piccoli centri a forte «rischio scomparsa» perché i loro abitanti se ne vanno. Così si perdono anche specificità e prodotti locali. Un patrimonio sociale, ed economico, che alcune iniziative ora provano a salvaguardare.
C‘è chi, come il sindaco di Bormida, un paesino nell’entroterra savonese, offre un contributo di 2 mila euro a chi accetta di trasferire lì la propria residenza lì. Chi, come la Regione Molise, promette un bonus di 700 euro a coloro che scelgono di abitare in un comune con meno di 200 abitanti. E chi dà le case in vendita a un euro (iniziativa nata nel 2010, nel piccolo comune siciliano di Salemi da parte dell’allora sindaco Vittorio Sgarbi, come raccontiamo più avanti).
Misure singolari, chissà quanto davvero efficaci, per cercare di porre un argine a un’emergenza nazionale: lo spopolamento dei comuni italiani sotto i 5 mila abitanti. Le cifre parlano chiaro: due milioni di case inutilizzate in 5.627 borghi, che negli ultimi 30 anni hanno visto la popolazione originaria ridursi fino all’80 per cento.
Sarebbero circa 1.000 i comuni italiani già completamente abbandonati, e gli altri 5 mila sono a forte rischio di diventarlo presto. Luoghi diroccati, tristi ma comunque suggestivi, oggi meta preferita per un certo tipo di turismo «d’avventura».
Un pezzo di Italia abbandonata al proprio destino. Eppure queste migliaia di piccoli borghi racchiudono tradizioni ed ecosistemi naturali, oltre che tantissini prodotti locali, che rischiano di andare persi. Secondo uno studio di Coldiretti del 2018, il 92 per cento delle produzioni tipiche del nostro Paese nasce proprio nei comuni con meno di 5 mila abitanti. Un sistema virtuoso che rappresenta il 69,7 per cento dei 7.977 comuni italiani, e in cui vivono poco più di 10 milioni persone.
Nella lista dei paesi «Cenerentola», la regione con il maggior numero di piccoli comuni è il Piemonte (1.067), seguito da Lombardia (1.055) e Campania (338); ma – in percentuale – la maggiore densità di centri sotto le 5 mila persone iscritte all’anagrafe sul totale regionale è in Valle d’ Aosta (99 per cento) e Molise (92).
Ecco allora che l’Anci, Associazione nazionale dei comuni, ha inviato un monito al governo perché all’interno del piano Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) vengano inseriti tutti quegli interventi che possono frenare la fuga dai piccoli centri. «Occorre che ci siano le smart city, ma anche le smart land, così da rendere più sostenibili le città» afferma Daniele Formiconi, capo area Riforme istituzionali piccoli comuni in Anci. «Se non si interviene dotando questi territori di servizi “intelligenti”, primo fra tutti la banda ultra larga nei piccoli comuni, rischieranno fra breve di rimanere disabitati. Con un grave danno non solo alla tradizione e alla cultura, ma anche all’economia dell’Italia».
Già, perché il reddito prodotto dall’ecosistema dei circa 6 mila «mini-comuni» pesa per circa il 5 per cento del Pil italiano: 92 miliardi di euro. Eppure la mancanza dei servizi essenziali, come scuole, farmacie, ospedali, uffici postali, trasporti, connessioni ad alta velocità, ma anche solo «connessioni telefoniche decenti», come dice Formiconi, sta provocando l’esodo continuo verso centri limitrofi più grandi e meglio serviti.
Capita così che una semplice nascita sia salutata dal paese come un evento memorabile, come nel caso della frazione di Graglio: borgo di poche decine di abitanti, provincia di Varese, dove da 28 anni non nasceva un bambino, fino a che Laura Locatelli, una donna trasferitasi lì da Genova, nel 2019 ha dato alla luce Agata. «All’interno del pacchetto del Pnrr per i piccoli comuni ci sono alcune misure interessanti, ma nel complesso manca una strategia specifica che parta dalla considerazione dello spopolamento come di una delle grandi emergenze nazionali» dice a Panorama Massimo Castelli, coordinatore nazionale Piccoli Comuni e sindaco di Cerignale (123 abitanti). «Un piano che presti attenzione al territorio, e non solo al numero delle persone che ci abitano. La riforma sulla riduzione dei parlamentari significherà probabilmente che queste aree non avranno nemmeno più rappresentanza politica. Occorre ripensare il nostro Paese in maniera più orizzontale e non solo verticale».
La strada da fare è ancora tanta, a partire dai servizi. Continua Castelli: «Se parliamo di comunità energetiche, non possiamo non partire dagli oltre 1.200 Comuni non metanizzati, che tra l’altro sono quelli costretti a inquinare di più». Anche dal punto di vista della fiscalità, servirebbe un approccio più equo nei confronti dei comuni che hanno visto uno spopolamento almeno del 50 per cento, e spesso hanno scuole, ospedali e posti di lavoro, a decine di chilometri.
E c’è un altro tema cruciale: «Sul territorio ci sono molti fabbricati e terreni lasciati a sé stessi, passati attraverso successioni ereditarie improduttive. Dovrebbero entrare nel patrimonio pubblico, in modo che i Comuni possano metterli a disposizione di coloro che vogliono investire». L’esodo con relativo abbandono della abitazione è anche un pericolo: senza manutenzione, edifici e terreni sono a rischio crolli e dissesti idrogeologici.
Per tutelare i luoghi che vanno sparendo ci sarebbe una legge, la n. 158/2017, nota come Legge Realacci: «Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei loro centri storici». Stanziava 90 milioni di euro, peccato sia rimasta quasi inattuata.
Per far fronte al problema, il senatore di Fratelli d’Italia Sergio Calandrini ha appena presentato un disegno di legge contro lo spopolamento dei comuni sotto i 5 mila abitanti. «Sono un patrimonio, ma con l’abbandono rischiano di morire e venir dimenticati. È necessario un intervento a tutto campo, non solo per ripopolare i territori, ma anche per renderli attrattivi dal punto di vista culturale ed economico. Oltre che sicuri contro i rischi di frane». L’obiettivo del Ddl sarebbe portare in particolare i più giovani a risiedere in questi borghi, a volte autentici «gioielli» storici lasciati al degrado. Come lo splendido insediamento medievale di Borgo San Pietro, in Umbria, costruito nel XI secolo come luogo di culto dei monaci Guglielmini, che l’imprenditore romano Stefano Magini ha acquistato cinque anni fa e completamente ristrutturato, riportandolo all’origine e trasformandolo in un resort di lusso.
O come Biccari, 2.700 anime sui monti Dauni, in Puglia, che il giovane sindaco Gianfilippo Mignogna sta cercando di recuperare, coinvolgendo la comunità degli abitanti con iniziative che coniughino passato e futuro. È il caso delle «bubble room», casette trasparenti per dormire nel bosco o in riva al lago.
Altro esempio: un gruppo di architetti due anni fa ha creato Brit, start-up di Bologna il cui obiettivo è valorizzare borghi e dimore storiche. Nei mesi scorsi il team ha avviato il progetto di ripopolamento del borgo di Vaccarizzo Albanese, 500 abitanti in provincia di Cosenza, dove non passa nemmeno più il bus e ha chiuso l’ufficio postale. Ma dove, ancora oggi, sopravvivono mestieri come la bachicoltura, la lavorazione della seta, la produzione di miele d’api, l’intaglio del legno. Importanti, nel loro piccolo, per l’economia locale.
I risultati si vedono: il minuscolo centro nel 2018 è stato scelto dal Massachussets institute of technology di Boston come modello ideale di studio per la riqualificazione ambientale di un luogo storico. Primi, timidi segnali per fermare un declino altrimenti irreversibile.