A due decenni dalla morte, un nuovo libro ripercorre la vita colorata, malinconica e piena di genio dell’attore. Per tutta la sua esistenza ha diviso la critica, ma piaceva a scrittori come Albert Camus ed Ennio Flaiano. Diventando alla fine un’icona pop.
«Caro Carmelo, ho saputo che sei apparso alla Madonna». La battuta è di Ruggero Orlando, il corrispondente Rai da New York che salutava con la manina come la regina Elisabetta. E il destinatario è l’attore, drammaturgo, scrittore, filosofo, regista teatrale più anticonformista e folle che abbia calcato i palcoscenici italiani. A 20 anni dalla morte di Carmelo Bene si può cominciare da qui, dal paradosso mistico ed egoriferito di un’apparizione al contrario diventata pietra angolare della sua filosofia di vita.
Perché per tutta l’esistenza lui avrebbe diviso gli intellettuali italiani (che detestava) in due categorie: «I cretini che dicono di avere visto la Madonna e i cretini che non l’hanno mai vista». Solo un ex chierichetto che servì un’infinità di messe avrebbe potuto inventarsi una simile metafora.
Uno così va guardato da lontano mentre brucia i vascelli sulla spiaggia e si incammina nel folto della foresta alla ricerca di Troia. Uno così va raccontato con meticoloso rigore filologico come fa Armando Petrini nel volume dal titolo più didascalico (Carmelo Bene, Carocci editore, 128 pagine, 12 euro), perfetto e spiazzante per ripercorrere la vita colorata, malinconica, piena e paradossale di un genio del teatro che la cultura ufficiale ha provato invano a seppellire e dimenticare nel deposito dei cimeli di Indiana Jones. Ma come un Arlecchino a molla, lui esce dalla scatola senza permesso e rimane qui, pietra di paragone inavvicinabile per chiunque voglia alzare il sipario per dire qualcosa di originale.
Come va? «Non c’è Bene, grazie». È la cifra di un ragazzo che nasce nel 1937 nel Salento e non deroga mai dal suo destino di anticipare ogni epoca. Si finge omosessuale per evitare il servizio militare, scappa a Roma per studiare teatro, fuma Gitanes e si ubriaca, viene internato in manicomio per due settimane su spinta del padre per evitare un matrimonio precoce (ma si sposa comunque). Poi vede ben due madonne protettrici. La prima a Venezia quando incontra Albert Camus, già premio Nobel, con Alberto Ruggero per chiedergli il permesso di mettere in scena il Caligola.
Scrive Petrini: «Carmelo e il regista facevano i gradassi bevendo alcolici, mentre Camus beveva semplicemente un’aranciata. Gli dissero che volevano fare il Caligola, ma avevano cambiato il finale e lo scrittore dopo aver letto il copione esclamò: “Come mai non ci ho pensato io?”». La seconda nel 1966 al teatro delle Muse di Roma. Replica de Il rosa e il nero, unico spettatore in platea: Theodor Adorno. Carmelo recita solo per lui.
Segue un dogma semplice ed estremo: opporsi a tutto. Crea la Compagnia dei Liberi senza troppe illusioni perché «liberi si è sempre a spese di qualcuno». Lavora sui copioni come faceva Michelangelo davanti al famoso blocco di marmo: «Non si tratta di mettere in scena un testo, ma di togliere di scena qualcosa». Carmelo è solo contro tutti e per stupire si inventa ribellioni proto-punk: consente agli attori di urinare sugli spettatori e tirare torte alle signore impellicciate in prima fila. Stupire e dare scandalo sono motori della forza creativa.
Ma dentro ha molto altro, ha il senso del dramma e della follia che escono prepotenti nella Salomè di Oscar Wilde, nella Manon Lescaut di Antoine François Prevost, in un Amleto mandato a frantumarsi sulle assi del palco. Dove Ofelia è ninfomane, Rosencrantz e Guilderstern parlano con l’accento pugliese e dove «Essere o non essere» è sostituito da «Avere o non avere».
La critica ufficiale si contorce per lo scandalo, ma Alberto Arbasino ed Ennio Flaiano lo difendono. Quest’ultimo scrive: «Tradisce i testi non per denigrarli, ma per rivisitarli; non fa mai i baffi alla Gioconda ma la prende a pugnalate».
Per Bene tutto questo non conta; detesta gli spettatori e non dà credito agli esperti. A modo suo in sintonia con la classe operaia, decide che «i signori macchinisti sono gli unici ai quali riconosco il diritto di critica ai miei spettacoli». La politica non riesce a incasellarlo, anche la sinistra ortodossa dei rivoluzionari con l’attico ai Parioli lo considera un impresentabile. Troppo anarchico, ingestibile.
Lo strappo con il comitato centrale della cultura degli anni Settanta avviene in teatro, complice Vladimir Majakovskij, quando Carmelo entra in rotta di collisione con Amelia Rosselli, la figlia di Carlo. Vedendolo lacerare le bandiere rosse bruciacchiate sul soffitto, la poetessa e musicista non accetta l’affronto, si alza indignata dalla poltrona e se ne va. Lui spiega con il consueto candore: «Quei drappi laceri sono il simbolo del fallimento rivoluzionario della Russia dopo il 1917». C’era arrivato 30 anni prima di Giorgio Napolitano, Massimo D’Alema e due generazioni di intellettuali organici (e orgasmici).
Larger than life, si espande nel cinema, dove trova uno sponsor del calibro di Pier Paolo Pasolini e vince il Leone d’argento al lido di Venezia con Nostra Signora dei Turchi, il suo romanzo trasformato in film. Poi tocca al piccolo schermo lanciarlo, triturarlo ed esserne abbagliato. Ha successo prima a Domenica in con Corrado, poi nell’acquario del Maurizio Costanzo Show. Per dirla alla Edmondo Berselli, «da giovane promessa si trasforma in venerato maestro». Praticamente un genio compreso che fa il matto per mantenere in vita il circo.
A teatro non ha più freni inibitori e a chi gli fa i complimenti perché nelle sue rappresentazioni c’è sempre un po’ di Bertolt Brecht, risponde con la supponenza degli eccentrici: «Forse è quello che avrebbe voluto fare lui e non c’è riuscito». Il momento magico della sua teatralità arriva il 31 luglio 1981, quando dalla Torre degli Asinelli a Bologna legge Dante Alighieri davanti a 200.000 persone commosse e assiepate nelle vie, nel primo anniversario della strage alla stazione. Qui, recitando come nessuno prima, aggiorna il segno del destino: «Il miracolo non è vedere la Madonna ma apparirle. Quella sera ero apparso alla Madonna».
Ma l’ortodossia non è il suo abito preferito quindi decide di scartare ancora, purosangue senza pace. E mette in scena la Cena delle beffe di Sem Benelli con il nudo simulato della scultorea Raffaella Baracchi, ex miss Italia e presto sua moglie. Una rappresentazione così impressionista da destabilizzare uno spettatore che, sentendosi ingannato dalla locandina, lo denuncia per truffa. Mentre infuria la bufera, trova riparo sotto la prosa gigantesca di Giovanni Testori: «Carmelo Bene non ha disegnato una parabola del disastro, ma ha eseguito, sera per sera, il disastro. Il nostro essere sinistri; il nostro essere lividi; il nostro accettare di ridurci alla filosofia del Potere che ci vuole non più uomini, bensì oggetti».
Bene diventa un’icona pop, anche se sparerebbe in un piede a chi glielo fa notare. Entra dalla porta delle istituzioni ed esce dalla finestra: nel biennio 1988-1990 dirige la Biennale di Venezia, poi scappa. Ormai passa da un successo all’altro e guardando all’Eterno tende alla sottovalutazione: «Delle mie ceneri fate ciò che volete, magari una crostata per colazione». Nella metafora da pasticceria c’è la consapevolezza dell’effimero e qualcosa di hitchcockiano. Anche il maestro del thriller diceva: «I miei film non sono pezzi di vita ma pezzi di torta». Il 16 marzo 2002 muore a Roma con un copione assurdo deciso da lui: durante la veglia funebre c’è quasi una rissa fra Luisa Viglietti, l’ultima compagna, e la Baracchi.
Il testamento artistico è un memorabile Pinocchio messo in scena dopo il primo infarto, remake di quello del 1962. È ancora e sempre lui a mescolare il pentolone, contaminando il burattino con Cuore di Edmondo De Amicis e Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Spiega: «C’è un’infanzia perversa, quella delle cantine buie, e c’è un’infanzia già consegnata al televisore. Quest’ultima non mi interessa». Ammette che il protagonista nasone non è altro che l’italiano medio. Carmelo è stanco, sente i ragni camminargli sotto la pelle. Nel libro, l’attore Edoardo Torricella ricorda: «Andai in camerino e gli chiesi che fine avessero fatto tutta l’energia, la forza del 1962». Lui lo guardò dentro lo specchio mentre si struccava e da mattatore gli recitò l’ultima battuta immortale: «Non vedi che questo è il mio funerale?».