«Ho la depressione post parto», scherza con Panorama Guillermo Del Toro, 61 anni, regista messicano vincitore di quattro Oscar per La forma dell’acqua, tre per Il labirinto del Fauno e uno per il cartoon Pinocchio, quando lo incontriamo al 22esimo Festival di Marrakech. Il suo ultimo lavoro Frankenstein, disponibile su Netflix, è fresco di cinque nomination ai Golden Globe, cui probabilmente seguiranno nuove candidature agli Oscar. Anziché sentirsi rilassato e felice, però, sembra struggersi. Come incarnasse un amore profondo per questa sua ultima “creatura” cinematografica. Un sentimento che, scopriamo, ha radici antiche.
«La domenica andavo in chiesa alle 8 del mattino, perché mia madre era cattolicissima, e poi passavo la giornata a guardare film in tv», racconta Del Toro. «A 7 anni vidi il Frankenstein di James Whale, una pellicola del 1931, e osservando Boris Karloff (l’attore che interpretava Frankenstein, ndr) provai qualcosa di profondo, della stessa intensità di ciò che mia nonna sentiva per Gesù. Solo che io lo percepivo per quel mondo di mostri, in qualche modo mi sentivo come Frankenstein. A 11 anni comprai un’edizione tascabile del romanzo di Mary Shelley e lo lessi in un giorno solo. E siccome già dagli 8 anni giravo i miei film in Super 8, decisi che quando avrei avuto abbastanza pellicola a disposizione l’avrei trasformato in film».
Oggi il remoto desiderio di Del Toro è sotto gli occhi di tutti, e ciascuno potrà giudicarlo non solo per l’aderenza al romanzo originale («ho scelto la prima versione, quella del 1818, molto più selvaggia e indisciplinata delle successive influenzate dal padre di Mary Shelley»), ma come hanno scritto i critici anche per la sua magniloquenza visiva e il carattere melodrammatico.
«Da messicano, le emozioni sono molto importanti per me», dice il regista, «e credo che viviamo un momento in cui manifestarle sia sempre più raro, il cinismo viene visto come sinonimo di intelligenza. Ma non bisogna vergognarsi di esprimere le emozioni, perché è attraverso di esse che si raggiunge la spiritualità. Io volevo che il film sembrasse un’opera lirica e trasmettesse forti vibrazioni. In questo mi sono ispirato al Romanticismo».
Vale a dire?
I Romantici hanno abbracciato un’ideale di spiritualità ed emotività a costo di sfiorare il ridicolo. Ma Lord Byron diceva: «Se qualsiasi altro espediente fallisce, sciocca il pubblico». Ecco, credo che questo possa essere un precetto per i registi. In un’era in cui l’industria vuole che affidiamo le nostre emozioni agli algoritmi per creare l’arte, dico: fanculo l’Intelligenza artificiale.
I mostri come Frankenstein sono al centro della sua filmografia. Eppure non terrorizzano, ma commuovono, per loro si prova empatia. Come mai?
Io sono nato nel 1964 e a quell’epoca tutti i mostri avevano smesso di essere creature portatrici di orrore. Si prenda Godzilla, il simbolo della forza della natura e del potere della bomba atomica: negli anni Sessanta era già addomesticato. E negli anni Settanta era già fiorente la cultura dei mostri Universal come Frankenstein, Dracula, la Mummia, l’Uomo lupo e così via, che da spaventosi, erano stati trasformati nei nuovi eroi. Nel libro di Mary Shelley sono rari i momenti demoniaci della creatura, mentre, in realtà, gran parte delle sue parole ricalcano il monologo di Calibano, il mostro schiavo di Prospero ne La tempesta di Shakespeare: «Perché mi hai fatto così? Perché mi hai dato il mondo e non la sua comprensione?». In fondo è il dialogo dell’uomo con Dio.
Il gusto per la ricchezza visiva dei suoi film da dove proviene?
Da ogni forma d’arte, tanto da un pittore come Henry Rousseau quanto da illustratori e fumettisti come Will Elder o Harvey Kurtzman. La mia formazione ha attinto moltissimo dal linguaggio visivo.
E i registi cui si ispira?
Ce ne sono due che mi hanno influenzato, Hitchcock e Fellini. Il primo diceva: «Ho iniziato col muto e quando è arrivato il sonoro ho cercato di sfruttarlo in maniera espressiva, e ho fatto lo stesso con l’avvento del colore». E Fellini ha fatto lo stesso passando dal neorealismo al colore: basti pensare a un capolavoro come Casanova! Io che avevo tutte queste cose a disposizione ho cercato di usarle nel modo più espressivo possibile.
Lei, Alfonso Cuarón e Alejandro González Iñárritu siete messicani della stessa generazione e avete sfondato tutti a Hollywood. Come lo spiega? Vi sentite squadra?
Parlo con Alfonso e Alejandro tutte le settimane, a volte più di quanto faccia coi miei familiari. Abbiamo in comune il fatto di essere stati dei ribelli: volevamo realizzato qualcosa che la generazione di registi messicani prima di noi non aveva fatto, cercando di migliorare la composizione delle immagini, la fotografia, il sonoro e così via. E abbiamo iniziato con la gavetta: Alfonso era assistente alla regia, io mi occupavo di effetti speciali, make-up e storyboard. Ci siamo aiutati a vicenda: ho letto le loro sceneggiature e loro le mie.
Quanto al successo, dal di fuori, è diverso da come lo abbiamo vissuto noi. Perché?
Avere successo può voler dire restare disoccupati anche per cinque anni senza che nessuno se ne accorga. Abbiamo rischiato tutti molto: ricordo quando Alfonso lottava per produrre Gravity che nessuno voleva. E poi quando ha sbancato il box office, tutti sono saliti sul carro del vincitore.
Guillermo Del Toro più che un nome è ormai un marchio di fabbrica?
Non credo. L’unico che è riuscito a trasformare il proprio nome in un marchio è stato Hitchcock. Ma anche lui ha dovuto superare pregiudizi: prima del successo dicevano che era un regista capace di girare al massimo una o due sequenze buone, ma non un buon film.
