La strana coppia che governa l’Italia reggerà? Una certa convergenza sui temi ecologici. La distanza su tutto il resto, a partire dall’Unione europea e la moneta unica. Beppe Grillo e Mario Draghi sono agli antipodi, ma l’Elevato ha bisogno dell’ex governatore della Bce per restare a galla. E così il nuovo premier diventa «la soluzione migliore per questo Paese». Per ora.
L’Elevato e il Supremo. Mai s’era vista nella politica italiana coppia peggio assortita. Beppe Grillo, fondatore e garante dei Cinque stelle, e Mario Draghi, premier chiamato a salvare l’Italia. Il ruspante e l’algido, l’improvvisato e l’arci competente, l’incontinente verbale e il parco di parole. Creature celestiali, partorite dalla fantasia dell’ex comico, destinate lassù a non incontrarsi. Del resto, la cotta è recente. «Vogliamo davvero lasciare il Paese a Draghi?» berciava Beppe a settembre 2011. Dopo averci rimuginato su, ora conclude: «Draghi è la soluzione migliore per questo Paese». L’ex presidente della Bce era il superburocrate che affamava il popolo. Ora è l’uomo della provvidenza. Davanti a Beppe e agli eletti si è materializzato di colpo l’abisso: o lui o gli inferi. Ovvero, il ritorno a vite grame e ininfluenti. Giammai. «Il banchiere di Dio è un grillino» riformula allora il fondatore. Ricordate l’economista che odorava di zolfo? Non esiste più: «Sembra che ci sia», «è pieno di soluzioni», «seguiamolo». Questo Super Mario in versione pentastellata è perfino ironico: «Mi chiama l’Elevato e io lo chiamo il Supremo».
Già, ma quanto durerà? Il partito, tra gli inconsolabili nostalgici di Giuseppe Conte e i movimentisti delle origini, si avvicina alla scissione. Espulsioni, ricorsi, guerre termonucleari. Il programma del premier, annunciato durante il voto di fiducia in Parlamento, non sembra incontrare i gusti pentastellati. Atlantismo, Europa, fisco, giustizia. Va tutto alla rovescia. Persino le politiche ambientali, decisive per il sostegno al governo, potrebbero non essere declinate come sperato. Insomma, c’è un Grillo nel motore. La macchina è partita. Ma tra addii e sondaggi in calo, militanti delusi e pie illusioni, il Movimento potrebbe presto zavorrare l’esecutivo. Soprattutto quando arriverà il semestre bianco. Le Camere, a quel punto, non potranno essere sciolte. E si rischia il fuggi fuggi generale.
Questo governo nasce «nel solco dell’Ue e dell’Alleanza atlantica» esordisce Draghi. «Senza l’Italia non c’è Europa, ma fuori dall’Europa c’è meno Italia». Solo che, appena tre anni fa, l’ex comico arriva a proporre un referendum per abbandonare la moneta unica. E quando il leader della Lega, Matteo Salvini, osa ricordargli che trattasi di «perdita di tempo senza effetti reali», Beppe strepita: «Mente! La Lega non ce l’ha più duro, Salvini chiacchiera, il Movimento agisce».
Per non parlare dell’atlatismo rivendicato dal premier. Quella dei Cinque stelle per l’antinomico governo di Pechino è difatti un’irrefrenabile passione. A novembre 2019 il fondatore si spinge addirittura a una visita privata all’ambasciata cinese. I post sul suo blog, intanto, grondano d’estasi: «La Cina nella nuova era». «La Cina inaugura il ponte sul mare più lungo del mondo». «La Cina accelera sugli aumenti salariali per diminuire il risparmio precauzionale». E quanto è encomiabile il Dragone, che promuove «agevolazioni fiscali per incoraggiare l’innovazione» e «sconfigge la povertà nello Yunnan».
Lodi sperticate, mentre un dubbio assale l’Elevato: «Perché gli Usa vogliono cambiare la Cina?» scrive la scorsa estate su Facebook. «L’Italia, insieme all’Unione europea, deve rivendicare la propria vocazione al multilateralismo ed evitare di seguire le campane maccartiste». Dunque, urge «contenere l’irresponsabilità statunitense». Slanci talmente impetuosi da imbarazzare pure gli ormai inseparabili alleati del Pd.
Perfino loro accusano Luigi Di Maio, ex leader del Movimento e riconfermato ministro degli Esteri, di essere troppo ossequioso con Pechino. D’altronde la sua adesione al piano «Belt and road initiative», la nuova Via della seta voluta dal presidente Xi Jinping, è sempre stata entusiastica. Accordi commerciali celebrati pure da Alessandro Di Battista, non a caso apertamente ostile all’appoggio a Draghi: «La Cina vincerà la Terza guerra mondiale senza sparare un colpo e l’Italia può mettere sul piatto delle contrattazioni europee tale relazione». E chi è l’artefice di questo capolavoro diplomatico? «Il rapporto privilegiato con Pechino, piaccia o non piaccia, è merito del lavoro di Luigi Di Maio».
E adesso che si fa? Semplice: già marginale, il ministro è destinato all’irrilevanza. Insomma, si farà a meno dell’esperienza faticosamente sviluppata da Giggino, maccheronico inglese compreso. Dopo anni nelle retrovie, l’Italia è guidata da un premier stimato e riverito. Il 26 settembre prossimo scade anche il mandato della cancelliera tedesca, Angela Merkel. E Draghi sarà ancora più determinante. Non a caso, smantellato il dicastero degli Affari europei, terrà per sé la strategica delega.
Certo, Grillo ha finto di gioire. È riuscito a sventolare come un trofeo i temi ambientali, agitato davanti ai militanti in vista del voto per il sostegno a Draghi. L’Ambiente è stato affidato a Roberto Cingolani, che ha trascorsi vicini al renzismo piuttosto che al grillismo. D’altronde l’ambientalismo tratteggiato da Draghi sembra lontano dal modello di decrescita felice da sempre cavallo di battaglia dei Cinque stelle. Per il premier, la svolta verde significa sviluppo, ricchezza, lavoro e benessere sociale: «Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo» spiega durante il voto di fiducia. Solo pochi giorni prima, Grillo però assaltava: «È l’economia che rovina l’ambiente».
Per il resto, fragorosa disfatta. La riforma della prescrizione, uno dei capisaldi del giacobinismo grillino, sarà smantellata dal nuovo Guardasigilli, Marta Cartabia. La sconfitta per l’ex ministro, Alfonso Bonafede, scopritore di Giuseppe Conte, è sonora. E non solo per lui. Tutta la compagine viene ridimensionata. Fabiana Dadone passa dalla Pubblica amministrazione alle Politiche giovanili. Stefano Patuanelli dallo Sviluppo economico all’Agricoltura. Chiare diminutio. Rimangono invece al loro posto Federico D’Incà, mai pervenuto responsabile dei Rapporti con il Parlamento, e, appunto, Di Maio.
Il garante dei Cinque stelle voleva poi un’imposta patrimoniale per i super ricchi. Era una delle irrinunciabili condizioni iniziali. Ma l’ipotesi viene adesso esclusa dal premier. Matteo Salvini, il più odiato tra i pentastellati, festeggia. Anche perché aveva avvertito: «Draghi dovrà scegliere tra noi e Grillo, tra chi vuole tagliare le tasse e chi vuole la patrimoniale».
L’esclusione della Lega dal governo era tra l’altro un’ulteriore condizione posta dall’Elevato: «Ho detto a Draghi: “Non deve entrarci la Lega”. Perché la Lega di ambiente non ha mai capito una mazza di niente e lui mi ha detto: “Non lo so, vediamo, vediamo, vediamo…». Non solo il Carroccio è entrato nella maggioranza. Ha avuto anche ministeri strategici. A Giancarlo Giorgetti, che con il premier vanta antica frequentazione, è andato lo Sviluppo economico, determinante per il Nord produttivo. Mentre Massimo Garavaglia è il nuovo ministro del Turismo, settore determinante per la ripartenza, come confermato dal presidente del Consiglio.
Ma c’è un altro tema che rischia di aumentare la distanza con Grillo e accorciare quella con Salvini: l’immigrazione. Argomento decisivo per la Lega. Draghi ha accusato Bruxelles di essere in una situazione di «stallo politico», visto che «è impossibile prendere una decisione» che metta d’accordo tutti. «Il problema dell’immigrazione va risolto in sede europea». Bisogna ottenere un accordo sulla redistribuzione dei migranti» spiega. «Senza riportare legalità e sicurezza non ci può essere crescita». E il reddito di cittadinanza, caposaldo della politica grillina avversato dal Carroccio? «Draghi ha detto che è una grande idea, adesso ci vuole per la pandemia» riferiva ancora Beppe, ma è davvero improbabile che resti così com’è. E, anche in questo caso, si rischia un’insanabile frattura.
Insomma, quanto tempo passerà prima che il Grillo tenti di ingrippare il motore? Quella per Draghi, alla fine, potrebbe essere solo una sbandata. O, peggio, solo l’interessato calcolo di chi vuole evitare l’estinzione. Già nell’estate del 2019, dopo la fine del primo governo Conte, il garante del Movimento aveva pubblicato un post per tentare di giustificare l’ennesima capriola: «La coerenza dello scarafaggio». D’altronde, pur di restare al potere, bisognava cancellare dieci anni di viscerale odio verso il Pd. Già. Ci sono specialità in cui l’italiano medio non teme confronti: salto della quaglia, salita sul carro del vincitore, mutazione da incendiario a pompiere. Sempre e comunque, vale l’arcinoto: «Solo i cretini non cambiano idea». Ma, pure stavolta, il fondatore è stato inarrivabile.
«Chi è Draghi?» ulula nel 2011, prima di ricordarne le nefandezze. Già, chi è al tempo il futuro premier? «Un banchiere mai eletto da nessuno» si sgolava Grillo. Uno che lavora «per conto della finanza, a garanzia degli investimenti nelle imprese italiane, comprate per un pezzo di pane, e della quota di debito pubblico». È il 2014. Draghi detta «ordini al signor Napolitano, che esegue prontamente nominando a destra e a sinistra Tizio e Caio senza passare dalle elezioni, in funzione dell’obbedienza cieca e assoluta ai voleri della Troika».
Ah, la Troika. Quanta nostalgia. Battaglia epocale, quella. L’allora presidente della Banca centrale europea è tacciato di auspicare «una diminuzione della sovranità nazionale». Peggio: ricompensa «il crack finanziario azzerando il welfare dei Paesi». Perché, insolentisce l’ex comico, per lui e suoi simili «la sanità è un costo, la pensione è un costo, la scuola è un costo». E noi siamo assediati: «Sotto scacco di questa gente». Draghi meriterebbe perfino di finire a processo per il crac del Monte dei Paschi. È «una Mary Poppins un po’ suonata che tira fuori dalla sua borsetta sempre le stesse ricette». Altro che paladino dell’Europa. «Cosa fa tutto il giorno, quando non alza i tassi dello 0,25 per cento?».
E adesso arriva l’ennesima giravolta. A ulteriore riprova della folgorazione, Grillo twitta una sfilza di facce dell’austero premier ritratto in stile Pop art, come faceva Andy Warhol con Marilyn Monroe. Il premier, con la sua elegante scriminatura, è più affascinante di Cary Grant. L’immagine multicolore è accompagnata dall’ormai leggendaria frase di Draghi sul piano di salvataggio dell’euro, sebbene riformulata: «Now the environment. Whatever it takes». Cioè: ora l’ambiente, a qualsiasi costo.
Si vedrà. Ma gli opposti, stavolta, non sembrano destinati ad attrarsi. Le differenze restano. La più incolmabile pare racchiusa nell’ovvio intendimento annunciato dal premier: «Facciamo fare a chi sa fare». Sarebbe l’apocalisse per il Movimento. Un terremoto che sbriciola le fondamenta. Così, il dubbio diventa tarlo: quanto tempo passerà prima che «la soluzione migliore per questo Paese» torni a essere il «banchiere mai eletto da nessuno»?