I protagonisti dei fallimenti industriali e bancari degli ultimi decenni in Italia alla fine pagheranno poco o nulla per i reati commessi. Tra processi infiniti e prescrizioni, è ben raro che finiscano in prigione. Oppure, chi ci va, dopo poco tempo può tornare a godersi i soldi sottratti ad azionisti e risparmiatori.
La sola idea della bancarotta era «più atroce della morte, era disordine, crollo, rovina, vergogna, scandalo, disperazione e miseria». Questo nella Lubecca dei Buddenbrook di Thomas Mann. Poi c’è l’Italia. Dove quando si scava un buco miliardario, l’importante è avere messo da qualche parte i soldi per i migliori avvocati e poi resistere, resistere, resistere. Nei giorni scorsi, altre due conferme eccellenti: Sergio Cragnotti e Giovanni Zonin. L’ex presidente della Lazio, il 12 marzo, è stato condannato definitivamente a 5 anni e 3 mesi di reclusione per il crac Cirio. Ci sono voluti 19 anni e nel frattempo Cragnotti è diventato un signore di 81 anni, che se la caverà con l’affidamento in prova ai servizi sociali. Una settimana dopo, il giorno di San Giuseppe, protettore dei lavoratori, il Tribunale di Vicenza ha invece condannato a sei anni e mezzo di reclusione Giovanni Zonin per la demolizione della Banca Popolare di Vicenza. Qui ci sono voluti sei anni solo per arrivare al giudizio di primo grado e la prescrizione è in agguato. Zonin di anni ne ha 83 e lo hanno interrogato sempre da uomo libero, passaporto compreso.
Anche il mercato è libero, se si regge sulla fiducia e sulla certezza che chi sbaglia paga. Bernard Madoff, il finanziere newyorchese che ha ideato una truffa planetaria da oltre 13 miliardi, l’11 dicembre del 2008 ammette con il figlio di aver creato una gigantesca catena di Sant’Antonio (pagava gl’interessi con il capitale dei nuovi clienti) e nel giro di poche ore finisce in galera. In sette mesi viene condannato in via definitiva a 150 anni di prigione e non l’hanno fatto uscire neppure l’estate scorsa, nonostante abbia 82 anni e un tumore.
È certo meno noto di Madoff, ma in fondo Marco Marenco da Asti, 64 anni, ha messo a segno la seconda bancarotta italiana, dopo la Parmalat di Calisto Tanzi. L’unico momento di celebrità, Marenco lo ha avuto il 24 settembre 2015, quando gli svizzeri lo hanno consegnato alla magistratura italiana. La sera, i telegiornali di casa nostra hanno dato notizia dell’estradizione di questo imprenditore «che ha fatto fallire i cappelli Borsalino». Ma i cappelli erano solo un granello di sabbia nel castello finanziario di Marenco, che con 190 società sparse per il mondo era diventato un reuccio del gas. Comprava da colossi come Gazprom e Snam, poi portava le bollette dei clienti in banca e si faceva finanziare sempre nuovi acquisti. Ma non pagava nessuno e cinque anni fa ha lasciato un buco di quasi quattro miliardi. Dopo un annetto di galera, nel 2016 ha patteggiato 5 anni. Ora è già fuori, ma il mese prossimo rischia un secondo processo per bancarotta. Il giorno della sua estradizione, la Radio della Svizzera italiana proclamò: «Rischia 20 anni di carcere». Sì, ma a patto che in aula tenti di strangolare il presidente del tribunale. Oppure, che crei un disastro ambientale delle proporzioni dell’Ilva di Taranto.
Già, l’Ilva, qui non c’è una bancarotta, ma anche in questo caso, secondo i pm di Taranto, si è davanti a comportamenti predatori, laddove per garantire profitti e posti di lavoro più o meno clientelari, si distrugge l’ambiente e la salute dei cittadini. Il 17 febbraio scorso, la procura ha chiesto rispettivamente 28 e 25 anni per Fabio e Nicola Riva. Secondo l’accusa, «i motivi a delinquere sono i soldi, perché gli impianti dovevano marciare al massimo della produzione, il resto veniva meno». Dai primi arresti, sono passati sette anni e mezzo.
In Italia, chi ha maneggiato molti soldi non deve mai perdersi d’animo. Anche il ragionier Giovanni Berneschi, per quasi un ventennio «banchiere» della Carige, riverito da vescovi e compagni, è stato arrestato a maggio del 2014, dopo che l’anno prima la Banca d’Italia aveva trovato un buco da 7 miliardi e decine di prestiti avventurosi ai soliti quattro costruttori.
A fine febbraio, l’ex vicepresidente Abi e i suoi coimputati si sono accordati con la Procura di Milano per condanne dimezzate (intorno ai quattro anni), con la garanzia di evitare il carcere, e la restituzione di 21 milioni. Tre anni fa, la Corte d’appello di Genova aveva condannato Berneschi a 8 anni e 7 mesi, ma la Cassazione ha azzerato tutto e spostato il processo a Milano, dove i pm, per non far scattare la prescrizione dei reati di riciclaggio e associazione a delinquere finalizzata alla truffa, hanno accettato i patteggiamenti. Avere ottimi avvocati è stato decisivo, ma in questo caso ci hanno messo del loro anche i magistrati genovesi, che si sono schiantati sulla competenza.
Anche a Bari ci sono voluti anni perché la giustizia si mettesse in moto. Era dal 2012 che i conti della locale Popolare erano in affanno e dal 2015 le sue azioni non erano rivendibili. Ma più l’istituto sprofondava e più investiva in pubblicità e pubbliche relazioni. A dicembre 2019 è intervenuto lo Stato con 900 milioni per tamponare i buchi di una gestione capace di polverizzare un miliardo e mezzo di euro dei 70 mila soci. Da oltre mezzo secolo, l’istituto era in mano alla famiglia Jacobini e da poche settimane sono iniziati due processi che vedono sul banco degl’imputati Marco e il figlio Gianluca. Indimenticabile, nella primavera di tre anni fa, l’intervento in assemblea dell’allora presidente Marco Jacobini, concluso così: «Questa banca ha dato tanto al territorio, alla Puglia, alla Calabria, alla Basilicata, alla Campania e all’Abruzzo! Brava banca!». E giù una bestemmia, a microfono acceso, mentre si batteva le mani da solo.
Di «banca del territorio» sanno qualcosa anche in Veneto, con la sparizione della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Sono costate 4,7 miliardi a tutti i contribuenti italiani e la sola Vicenza ha lasciato un buco da quasi sette miliardi, con 117 mila soci che hanno perso tutto. Per arrivare alla sentenza di primo grado, ci sono voluti sei anni e la prescrizione è vicina. Mentre l’inchiesta per bancarotta, partita solo due anni fa, non è ancora conclusa. Anche qui, fiumi di retorica localista hanno finito per coprire il dominio incontrastato di un signorotto locale con i giusti agganci tra Roma e Palermo, dove aveva sede la controllata Banca Nuova.
La scorciatoia migliore per l’immunità di gregge negli affari, però, resta sempre il pallone. Sergio Cragnotti compra la Lazio nel 1992 e vince lo scudetto nel 2000. Lo scandalo della sua Cirio esplode nel 2002, con oltre 30 mila risparmiatori coinvolti e un buco da 1,1 miliardi. L’anno dopo, il finanziere di casa in Brasile cede il club biancoazzurro e nella primavera 2004 finisce a Regina Coeli per qualche mese. Per arrivare alla condanna definitiva ci sono voluti quasi vent’anni. Anche il caso Cragnotti insegna che l’errore di Madoff è stato uno solo: non essere nato in Italia.