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The Handmaid's Tale 3, non sono una cosa

Torna la serie tv che ha sconvolto il mondo rappresentando la donna come sottomessa e utilizzata per procreare

Distopia: «previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro   con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi». Così recita il dizionario, e da qui si parte, con completezza, per definire il fenomeno Handmaid’s Tale.

La serie tv prodotta da MGM ha fatto incetta di premi di ogni tipo (è stata tra l’altro la prima serie drammatica a vincere sia il Golden Globe che l’Emmy Award nella sua categoria), ha colpito con ferocia l’immaginario collettivo e creato un hype non frequente nel pur eccitabile mondo della serialità. La terza stagione arriva su TimVision il 6 giugno in contemporanea con gli Stati Uniti, ed è composta da 13 episodi: i primi tre disponibili subito, poi uno a settimana, con gran finale il 15 agosto. Il teaser è stato trasmesso, per dare un’idea del clima di attesa, durante il SuperBowl, e ricalca uno spot elettorale del presidente Usa Ronald Reagan in cui, nel 1984, si prospettava un radioso futuro con incremento demografico e grande benessere per la popolazione. Ma la voce della protagonista giunge a incrinare l’atmosfera ottimistica con le parole: «Svegliati, America. Il mattino è finito».

Tratta dal romanzo della canadese Margaret Atwood pubblicato nel 1985, I racconti dell’ancella, e ambientata in un futuro non lontano, la serie narra di un’epoca in cui il tasso di fertilità umana è in drastico calo a causa di malattie e inquinamento. Dopo una guerra civile, il regime totalitario di Gilead prende il comando nei luoghi che un tempo erano gli Stati Uniti. La società è rigidamente divisa in nuove classi sociali, in cui le donne sono soggiogate e non possono leggere, viaggiare, lavorare o maneggiare denaro. Oltre a Gilead, che è in guerra con il Canada, vi sono poi le Colonie, usate come campi di prigionia e punizione, e devastate dalle radiazioni. Le donne fertili, le Ancelle, sono assegnate a famiglie in cui vengono forzate a rapporti con il padrone allo scopo di partorire figli. Ma tutta la società di Handmaid’s Tale è raggruppata in classi sociali, e i costumi le codificano: le Ancelle sono vestite di rosso, le Marta (domestiche) di grigio chiaro, e aiutano le Mogli (abiti blu) nel governare la casa, mentre il resto della popolazione ha abiti grigi. Le Ancelle sono istruite da donne chiamate Zie, e dotate di pistole taser per impartire ordini, vestite in abiti marrone scuro. La vita della popolazione è controllata dagli Occhi, organismo segreto che spia per scovare i dissidenti.

Bastano anche queste brevi note, a chi non ha ancora visto le prime due stagioni, per entrare nell’atmosfera plumbea e venefica della serie creata da Bruce Miller, che già dopo la prima stagione guadagna autonomia narrativa rispetto alle pagine del romanzo.

La protagonista è la Elizabeth Moss di Mad Men e Top of the Lake, che giganteggia nel ruolo di June Osborne, ribattezzata Difred (ossia «di proprietà di Fred»), Ancella assegnata alla casa del Comandante Fred Waterford e di sua moglie Serena Joy dopo essere stata catturata mentre tentava di fuggire in Canada con il marito e una figlia. Sono le sue gesta che seguiamo più da vicino, e che nei nuovi 13 episodi saranno incentrate sulla Resistenza: Difred decide di restare a Gilead per combattere.

Nel cast, accanto a Moss, tornano Joseph Fiennes (Shakespeare in Love), Yvonne Strahovski (qui l’algida Moglie di Fred, già vista in Dexter), Alexis Bledel (Una mamma per amica e Mad Men), Madeline Brewer (Black Mirror), Ann Dowd (The Leftovers), Max Minghella (The Social Network, The Internship), Amanda Brugel (attrice comica canadese vista in Seed) e Samira Wiley, già nel cast di Orange is the New Black, che dice: «Lo show ha debuttato in un periodo storico particolare: paradossalmente questo ci ha fatto gioco, l’attenzione sulla serie è così alta anche per il contesto contemporaneo».

In epoca di #MeToo, infatti, la società divisa in classi della serie ha fatto molto parlare. E nel dibattito, con annesse polemiche, è finita anche la Atwood. L’autrice è stata definita una «cattiva femminista» per avere evidenziato, sul quotidiano canadese Globe and Mail, i limiti del movimento. «Come sarebbe una buona femminista agli occhi dei miei accusatori? La mia posizione fondamentale è che le donne sono esseri umani, con tutta la gamma di comportamenti santi e demoniaci che questo comporta, compresi quelli criminali. Non sono angeli, incapaci di commettere errori. Se lo fossero, non avremmo bisogno di un sistema legale» spiega la scrittrice.

La Atwood nel 2016 firmò una petizione in cui si chiedeva un processo equo per un professore della University of British Columbia accusato di molestie sessuali da uno studente e ritenuto colpevole dall’opinione pubblica prima di ogni indagine. «Dopo un’inchiesta di mesi, con testimoni e deposizioni» dice Atwood, «il giudice sancì che non vi era stata violenza sessuale. Fu licenziato comunque. Ma volere diritti umani per tutti non significa dichiarare guerra alle donne. Perché le donne abbiano diritti, i diritti devono esistere». L’autrice spiega che secondo lei «il #MeToo è sintomo di un sistema legale che non funziona come dovrebbe. I metodi del #MeToo non possono essere il fine, ma solo una fase di transizione» ha dichiarato, prima di prendersi una pausa dai social e dai quasi due milioni di follower. The Handmaid’s Tale è anche una parafrasi del ruolo della donna nell’era dei Talebani. Solo che, invece di essere ambientata nei Paesi arabi, si svolge in Occidente. E questa è una cosa che inquieta lo spettatore, ma allo stesso tempo lo attrae in modo compulsivo. The Handmaid’s Tale continua a far parlare di sé e l’attesa, insieme alle aspettative, cresce. Nel mentre, mai dimenticare la frase della sua autrice che si attaglia perfettamente al clima brutale della serie: «Dio è nei dettagli, si dice. E così pure il diavolo».  

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