Contenuti d'odio diffusi via YouTube, Google è responsabile e deve risarcire
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Contenuti d'odio diffusi via YouTube, Google è responsabile e deve risarcire

In Australia un giudice ha intimato a Big G di pagare quasi 500.000 euro per non aver rimosso clip offensive verso un politico locale. Un caso che potrebbe cambiare le carte in tavola. Cosa succederebbe se anche da noi fosse così?

Google guadagna soldi (anche) grazie ai video condivisi dagli utenti su YouTube, quindi è responsabile dei contenuti diffusi tramite la piattaforma di video-sharing. E per questo deve pagare in caso di mancata rimozione di clip offensive, dalle quali ottiene un flusso di denaro. Da questo principio è partita la Corte federale australiana che ha intimato alla compagnia californiana di pagare 715.000 dollari australiani (equivalenti a poco più di 480.000 euro) all'ex politico John Barilaro, bersaglio di ripetute offese in alcuni filmati caricati su un canale YouTube.

La questione è delicata perché da alcuni anni i legislatori australiani hanno deciso di dare un giro di vite ai contenuti che circolano sulle più popolari e utilizzate piattaforme online, mettendo al centro della contesa chi quelle piattaforme le gestisce, assicurandosi enormi ricavi. Il caso specifico riguarda l'operato di Jordan Shanks, noto sul Tubo con il canale Friendlyjordies, che conta 626.000 iscritti e 738 video per un totale di oltre 175 milioni di visualizzazioni dal febbraio del 2013 a oggi. Due delle clip pubblicate nel passato recente, però, sono finite al centro dell'attenzione, scatenando un precedente che potrebbe cambiare gli equilibri tra piattaforme, utilizzatori e fruitori del servizio.

Sulla ribalta sono finiti i contenuti razzisti e diffamatori che Shanks ha indirizzato a Barilaro (ex vicepremier del New South Wales, lo stato sulla costa orientale dell'Australia che ha come capitale Sydney) senza nessun documento o altra prova a certificare la gravità delle affermazioni. Questi filmati caricati nel 2020 hanno ottenuto nel complesso più di 800.000 visualizzazioni, finendo per colpire l'animo del politico, che con una carriera danneggiata da tali pesanti addebiti ha deciso di allontanarsi dalla res pubblica per dedicarsi ad altro. Con la contesa tra i due protagonisti risolta da un accordo in separata sede (e 100.000 dollari versati come risarcimento da Shanks a Barilaro), per il Tribunale resta la colpevolezza di Alphabet Inc., la holding che raggruppa le attività di Google e delle molte altre società legate alla compagnia di Mountain View: "Google è stata avvisata circa la presenza di video diffamatori, ha verificato e stabilito che i contenuti non fossero dannosi, lasciandoli così disponibili sulla piattaforma", ha spiegato David Rolph, professore in diritto dei media presso la University of Sydney Law School.

La ripetizione di termini come 'corrotto' e gli insulti legati alle origini italiane di Barilaro rappresentano per il giudice Steve Rares un comportamento inappropriato, poiché Shanks ha conferito più volte parole d'odio, con Google che non ha "protetto la figura pubblica presa di mira in maniera ingiusta, tanto da traumatizzare Barilaro e spingerlo ad abbandonare la politica", dimostrandosi così responsabile dei danni subiti dallo stesso ex legislatore. Per Google le frasi incriminate non sono contenuti diffamatori e non oltraggiano l'onore di Barilaro, mentre lo youtuber ha agito in nome della libertà di critica verso i rappresentanti politici. Al di là del caso specifico, l'importanza del verdetto sta nella possibilità che questioni simili, all'ordine del giorno su piattaforme che contano centinaia di milioni di utilizzatori, possano esser affrontate in egual modo in altri paesi. Certo, è vero che sono al momento pochi i paesi che equiparano agli editori le compagnie dietro le grandi piattaforme social, come accade da oltre un anno in Australia, tuttavia il precedente può rappresentare un modello da cui prendere le mosse per affrontare la complicata rete di responsabilità tra chi si serve di certi servizi e chi quei servizi li gestisce, ingrassando quotidianamente le proprie casse.

L'anno scorso, sempre in Australia, un quotidiano è stato condannato a pagare l'ammenda comminata per i commenti pubblicati sotto un post diffuso su Facebook. Questo precedente ha spaventato le testate nazionali e locali, con molte aziende che hanno preferito ridurre la presenza social per non rischiare di incappare in un vortice simile. Restano da vedere gli sviluppi del caso, poiché Google non ha ancora ribattuto alla decisione del giudice e, come di norma succede in questi frangenti, punterà sicuramente a presentare ricorso e allungare il braccio di ferro legale. Tuttavia, il governo e i magistrati australiani hanno tracciato la propria rotta, dimostrando che non vogliono continuare a punire il singolo e restare immobili davanti alle big tech. Per quanto sia complicato riuscire a controllare a stretto giro la totalità dei contenuti pubblicati dagli utenti, è giunta l'ora che le piattaforme (social e non solo) rispondano delle proprie scelte e si uniformino alle condotte sancite dal buonsenso, oltre che dai diritti. Altrimenti è tutto troppo facile per chi continua a muovere i fili e aumentare i ricavi, senza neppure dare indietro quanto dovuto.

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Alessio Caprodossi