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Così gli scienziati inquinano l’Antartide

Così gli scienziati inquinano l’Antartide

Costruite per «difendere» il Continente bianco e studiare i cambiamenti climatici, le tante basi dei ricercatori hanno finito per danneggiare questo ambiente fragile: troppi rifuti tossici e troppa plastica in luoghi un tempo incontaminati. Un problema vasto e sottovalutato.


Investita del ruolo di difesa del pianeta, la scienza si trova, suo malgrado, a inquinarlo. Lo documenta uno studio sul periodico Plos One che, in buona sostanza, dice né più e né meno che le basi scientifiche in Antartide, incluse quelle che indagano sui cambiamenti climatici, si sono rivelate una vera bomba ecologica, avendo rilasciato nell’ambiente una lunga serie di sostanze dannose. E non si tratta dell’unico caso in cui i ricercatori danno il cattivo esempio.

Prima di maggiori dettagli, bisogna premettere che l’Antartide è il luogo più incontaminato e inaccessibile della Terra, sconosciuto fino a soli 200 anni fa. Parliamo di quasi 14 milioni di chilometri quadri di ghiaccio permanente in ogni stagione, spazzato da venti che possono superare i 300 chilometri orari, circondato da un mare dalle correnti poderose che possiede, stando ai recenti dati dell’autorevole progetto Census of Marine Life, un grado di biodiversità superiore a quello delle Galapagos. A partire dal 1898 sono sorti i primi accampamenti, più che altro per sostenere imprese eroiche che hanno avuto come protagonisti esploratori dalla memoria imperitura del calibro di Ernest Shackleton, Roald Amundsen e Robert Falcon Scott. Ma è stato solo dopo la Seconda guerra mondiale che sono state costruite le basi scientifiche permanenti, poi moltiplicatesi rapidamente fino alle 112 di oggi, con 42 nazioni che partecipano e un numero di ricercatori totale che in alcuni periodi raggiunge le cinquemila unità.

Ebbene, gli autori del rapporto su Plos One hanno studiato dal 1997 al 2015 un’area specifica, quella della stazione Casey gestita dall’Australia, e hanno poi estrapolato il risultato su una scala più grande. Con sommozzatori e pinze azionate a distanza hanno raccolto sedimenti marini dalle acque poco profonde intorno alle baie e alle isole, alla ricerca di potenziali inquinanti, poi hanno esaminato i campioni con diverse tecniche. A sorprenderli è stata l’elevata concentrazione di metalli, idrocarburi e dei cosiddetti «inquinanti organici persistenti» (Pop), cioè sostanze tossiche o cancerogene resistenti alla decomposizione. In particolare, sono stati rilevati piombo, zinco, rame, ferro, stagno, cadmio, bario, manganese, argento, antimonio, arsenico e cromo con livelli aumentati dal 2006 al 2015. Tra i principali idrocarburi, sono emersi i C16-C34 e i cosiddetti Pbde inseriti nei materiali plastici, tessili, nei circuiti elettronici e in molti altri prodotti, per incrementarne le proprietà ignifughe. Non a caso queste sostanze venivano rinvenute in maggiori quantità vicino a discariche a cielo aperto con lattine, contenitori di plastica e di metallo.

«Abbiamo confrontato i livelli di sostanze dannose con i dati del World Harbors Project che sta analizzando la salute dei principali corsi d’acqua urbanizzati» dice Jonathan Stark, ecologo marino dell’Australian Antarctic Program e coautore dell’indagine. «Siamo rimasti esterrefatti dallo scoprire che alcune delle aree test in Antartide erano inquinate quanto il porto di Sydney e di Rio de Janeiro, notoriamente molto contaminati». Si potrebbe obiettare che se si fa ricerca in Antartide, questa situazione è inevitabile. Invece no: «L’inquinamento marino antartico è stato causato da una combinazione di cattiva gestione dei rifiuti in passato, quando venivano spesso scaricati vicino alle stazioni di ricerca, da sversamenti accidentali e dalle conseguenze dell’uso di sistemi moderni come rudimentali impianti di trattamento delle acque reflue» precisa Stark. «A peggiorare le cose c’è ora lo scioglimento del ghiaccio, dovuto al cambiamento climatico. Non solo emergono rifiuti ma le sostanze tossiche intrappolate vengono rilasciate nell’ambiente».

La Casey è una tipica stazione di ricerca antartica, tutte le altre situate nei pressi della costa hanno «effetti collaterali» simili.
«Con il nostro studio vogliamo dare consapevolezza dei potenziali impatti delle basi e sollecitare l’adozione di pratiche di gestione ambientale più severe» conclude Stark. Le previsioni sono tutt’altro che positive: la concentrazione di sostanze tossiche è prevista in aumento e la contaminazione si propagherà nelle zone limitrofe. Inoltre l’Antartide subisce anche il nostro inquinamento. Gli impianti industriali (specialmente quelli per la concia delle pelli, per l’abbigliamento impermeabile e il cartone) producono agenti chimici che si diffondono in atmosfera, reagiscono con la luce, si trasformano in Pfas (acidi molto forti) e ricadono come pioggia o neve, anche ai poli.

Tornando alla plastica, le stesse proprietà fisiche per cui risulta dannosa per la vita marina sono anche quelle che la rendono estremamente utile per le ricerche scientifiche e gli usi negli ospedali (per esempio protegge da batteri e altri agenti patogeni). Può essere resa rigida o flessibile, cotta al microonde e congelata e può sopravvivere a tutto ciò con un degrado minimo. Soprattutto è economica, il che la rende usa-e-getta. Nei laboratori la maggior parte degli strumenti sono monouso ( e non a caso in questi ambienti i rifiuti aumentano a dismisura). C’è poi da considerare la massiccia presenza dei ricercatori in quegli ecosistemi. In Antartide le zone libere dai ghiacci sono diventate aree di competizione tra umani e fauna selvatica per i terreni più vitali, che poi ammontano a meno dell’1 per cento e sono i punti con la più alta diversità di piante e animali, comprese le colonie di pinguini e foche.

Uno studio su Nature del 2019 ha rilevato che oltre la metà di tutte le zone costiere antartiche libere dai ghiacci presentano disturbi del suolo visibili dallo spazio. L’impronta ecologica è piuttosto ampia relativamente al numero di persone presenti. L’impatto su flora e fauna derivante da ricercatori, fotografi e altri operatori che si ammantano di un’«aura ecologica» può essere devastante, ma è sottovalutato e scarsamente indagato. Pochi, per esempio, si chiedono quale sia il danno sugli animali selvatici dei tanti filmati e fotografie scattate in luoghi incontaminati e pubblicizzate sui social. La rivista Nature ha ripreso con enfasi l’articolo di Plos One chiedendosi come invertire il danno delle pratiche del passato in Antartide. Ha citato l’uso di batteri per rimuovere gli idrocarburi dal suolo intorno alla base Carlini in Argentina, sull’isola di Re Giorgio, e ha raccontato che un gruppo di ricerca è riuscito a eliminare oltre il 75 per cento degli idrocarburi dal terreno, il che riduce la necessità di rimuovere tonnellate di suolo contaminato da quei luoghi. Insomma, la scienza cerca, prima o poi, di risolvere i problemi che lei stessa crea, come affermò una volta il filosofo e sociologo Paul Feyerabend. Se non li creasse sarebbe ancora meglio

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