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Brexit: Boris Johnson ha avuto il massimo che potesse ottenere

Brexit: Boris Johnson ha avuto il massimo che potesse ottenere

Dato per spacciato qualche mese fa, Boris Johnson ha ottenuto il massimo da Bruxelles con un risultato quasi insperato. Senza penalizzazioni commerciali e con la finanza che prende ancora tempo per riorganizzarsi.


La mattina del 24 dicembre, un trionfante Boris Johnson si è presentato in tv con la buona novella per il Paese, che non era l’arrivo del Natale, ma un ormai impensabile accordo sulla Brexit. A pochi giorni dallo spauracchio della «Hard Brexit», BoJo è riuscito a strappare a Bruxelles l’uscita, senza penalizzazioni commerciali, cioè l’addio alla Unione europea senza dazi né tariffe doganali.

Gli ex colleghi giornalisti di Boris raccontano che quando lo spettinato primo ministro inglese era editorialista di punta del Daily Telegraph, il quotidiano conservatore posseduto dai gemelli miliardari Barclay, in redazione lavorava dentro un ufficio di vetro, in perenne ritardo sulla consegna dei pezzi. Rimbalzava tutte le chiamate dei caporedattori infuriati e, mentre il giornale stava per andare in stampa, lui era ancora davanti al computer a scrivere.

Con la Brexit, ha fatto una cosa simile. All’ultimo secondo, tra il malcontento generale. Il premier inglese sia per il suo aspetto fisico sia per il modo di parlare confusionario si presta a feroci critiche, essendo dipinto come un pasticcione. Però la Brexit, portata a termine contro ogni probabilità, è uno dei più grandi successi della storia per il Regno Unito, dopo la vittoria della Seconda guerra mondiale.

Difficilmente se ne trova menzione in giro per l’Europa, perché la narrazione prevede che la Brexit sia un buco nero e che la Gran Bretagna, per aver osato disubbidire al paternalismo burocratico della Ue, sia destinata alla fame e alla povertà. Ogni accordo è sempre scritto perché ogni parte possa vantarsi, di fronte ai propri sostenitori, di aver vinto. Ma la Gran Bretagna può reclamarlo per davvero.

Mentre la macchina europea della propaganda subito strillava alla grande vittoria della Ue e al declino di Londra, nel partito Tory, da bravi inglesi «poca forma molta sostanza», hanno passato al setaccio l’accordo, facendo la spunta punto per punto. E così emerge che la Gran Bretagna straccia l’Ue 28 a 11: su un totale di 65 punti critici contenuti nelle oltre 1.200 pagine dell’accordo, Londra ne ha ottenuti 28 a suo favore, contro gli appena 11 della Ue. Sugli altri 26 c’è stato un compromesso. Nel complesso, la Gran Bretagna ha ottenuto un 63% di concessioni favorevoli contro il 37% di Bruxelles.

Alla fine contano i risultati e non la narrazione. E che Boris sia il vero vincitore lo rivelano le sfumature: tornato in Parlamento dopo mesi, il premier è riapparso il flamboyant e vulcanico leader che un anno prima aveva stravinto le elezioni, costringendo il leader dell’opposizione Keir Starmer a dover ammettere in aula il suo appoggio all’accordo Brexit. A cui fa da contraltare il tono dimesso della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che ha annunciato l’intesa con la stessa verve di una direttiva sul diametro delle zucchine. In autunno, Johnson era un leader logorato da troppi fronti che aveva perso la presa sulla nazione, mentre in questi giorni si è trasformato nel premier più forte dai tempi di Tony Blair.

Allo scadere del tempo ufficiale, quando ormai il Paese sembrava indirizzato verso una Brexit disordinata, tra caos e problemi, il premier ha tirato fuori il coniglio dal cilindro. Lui che in teoria odia pure i conigli: il premier ha sempre voluto solo la «Hard Brexit». Perché fare un accordo con Bruxelles significava smentire se stessi. E soprattutto perdere voti: la middle class del Nord dell’Inghilterra, infatti, non avrebbe mai perdonato a Boris di piegarsi ai voleri dell’Europa. Di qui, anche la posizione, molto ideologica e poco pratica, sulla pesca: i merluzzi inglesi, un tempo industria fiorente di livello mondiale, oggi pesano solo lo 0,02 per cento dell’economia britannica.

I pescatori del Nord sono qualche migliaio, ma la pesca tocca milioni di elettori inglesi nel cuore. Alla fine ha prevalso il sano pragmatismo britannico: Boris si è reso conto che era impossibile fare una «Hard Brexit» e allo stesso tempo affrontare la crisi economica del Covid. Il blocco del Paese poco prima di Natale, coi camion in fila a Dover, è stato un assaggio di Brexit al buio, che ha convinto pure l’ala oltranzista del partito, quella dei Brexiter duri e puri, ad accettare un accordo.

Il primo dato dell’accordo è che ha vinto l’industria. Londra esce dalla Ue, non verserà più soldi al bilancio europeo, non dovrà sottostare ai suoi diktat. Ma avrà accesso al mercato unico senza paletti o ostacoli. Peccato però che l’industria inglese sia quasi scomparsa. L’unico settore di un certo peso è quello dell’automobile che però importa quasi tutto. E per questo esulta: con i dazi europei, le auto inglesi sarebbero morte. Salvo quel poco di manifattura rimasta, l’accordo non dice nulla sulla finanza che oggi è la vera spina dorsale del Paese: i servizi finanziari pesano per l’80% del Pil. Alcuni ci vedono una strategia di breve, forse un po’ miope: Boris ha voluto punire Londra.

In realtà lui i voti non li prende lì. E se un po’ di banchieri, tutti expat, andranno via dalla City, la cosa fa solo bene agli inglesi, perché scende il costo delle case e della vita nella capitale. La città, oggi una Disneyland per stranieri, torna a essere alla portata degli stipendi degli inglesi. Altri pensano che sia invece uno scenario strategico: favorendo l’industria sulla finanza, Boris punta nel prossimo decennio a un riequilibrio dell’economia, oggi troppo sbilanciata sulle banche. Una visione da statista, anche se la re-industrializzazone è un processo lungo e faticoso.

Anche la Brexit ha un rovescio della medaglia, e pure serio: il mondo della finanza e delle banche. Qui la Brexit è fumosa e lo stesso premier nicchia. Paradossalmente, per la finanza è scatta la «Hard Brexit». Dal primo gennaio non c’è più reciprocità tra Ue e Regno Unito: Londra non può più vendere prodotti né avere rapporti con clienti/investitori europei. Per Bruxelles è questa la grande vittoria: ha concesso al Regno Unito solo il libero scambio di merci, per un Paese che ne produce poche (ma ne consuma molte).

Con questi paletti, l’economia inglese tracolla. Addio ai sogni di gloria di fare di Londra, la nuova Singapore d’Europa. Però, grattando la superficie, si ha la sensazione che sia un rischio calcolato: Boris ha dato priorità ai suoi elettori. Ha messo la politica prima della finanza. Anche perché la City di Londra è sì il motore economico della nazione come peso, ma è un motore mosso da expat che non votano.

L’accordo di Natale sulla Brexit ha monopolizzato tv e giornali. In Europa si è celebrata la grande vittoria della Ue. Ma le vere notizie, come spesso accade, non sono mai in prima pagina: il 3 gennaio, nascosto in un trafiletto sui giornali, i lettori italiani hanno appreso che la Consob, l’autorità tricolore che vigila sui mercati, ha concesso 6 mesi di proroga agli operatori finanziari inglesi. Per metà anno, in Italia, e a seguire altri Paesi, nessuna Brexit nemmeno nella finanza.

Altro che sconfitta, Boris stravince: ha ottenuto accesso al mercato unico, senza sopportarne i costi, salvando la sua industria (ma facendo anche un favore a tutto l’export europeo, made in Italy in testa); e, per ora, nessuna penalizzazione per la finanza. Vuoi vedere che hanno ragione i Brexiter a oltranza: dall’addio ha più da rimetterci la Ue che il Regno Unito.

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