Sul doping la mano della malavita
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Sul doping la mano della malavita

Il mercato nero dell'illecito è sempre più sotto il controllo della criminalità organizzata

L’Epo di Alex Schwazer non risveglia lo sport italiano né quello olimpico dall’innocenza, come qualcuno ha precipitosamente scritto. Perché né l’uno né l’altro ci hanno mai sguazzato.
Il fenomeno era allarmante alla vigilia di Pechino 2008, quando i casi di positività scaturiti dai controlli preventivi furono addirittura un’ottantina (due quelli di casa nostra, il diuretico del fiorettista oggi medagliato Stefano Baldini, e ancora l’Epo della ciclista Marta Bastianelli). E lo rimane oggi, perché le sue dimensioni apparentemente più ridotte non rappresentano che la punta visibile di un business in crescita da tutti i punti di vista.
Abbandonata l’epoca un po’ rustica degli ormoni a ripetizione toccati in sorte a velociste russe, sollevatori di pesi bulgari e nuotatori della Germania Est, oggi quello del doping sportivo è un mercato sofisticato e ramificato. Che, solo per restare in Italia, vanta oggi almeno mezzo milione di clienti, con un giro d'affari di 800 milioni di euro e tassi di crescita del 25% annuo. Un fenomeno che accomuna dilettanti a notissimi campioni dell'atletica e del ciclismo - sport dove la resistenza alla fatica è tutto -, ma che ha coinvolto anche divi del calcio e giovanissime promesse.

A sette o otto anni cominci a prendere la bottiglietta rossa che «ti fa staccare l'amichetto», a 13 o 14 c'è quell'integratore da cui pare dipendere tutto e a 17 anni ormai sei quasi convinto che per fare il salto di qualità, magari pure monetizzandolo, ci vuole "l'aiutino".

Secondo un'indagine del 2007 dell'Istituto superiore di sanità, il 35,7% di giovani sportivi (su un campione di 5mila ragazzi in attività sportiva, la maggior parte calciatori, fra i 14 e i 17 anni) ricorrerebbe a un non meglio specificato aiutino se avesse la certezza del risultato. «Questo fa di un terzo degli intervistati dei potenziali, futuri, clienti per il business del doping», ha spiegato al quotidiano La Stampa Marcello Ghizzo, medico sportivo del Coni di Milano.
Sono passati cinque anni e il giro d’affari delle sostanze dopanti, secondo stime ufficiose degli addetti ai lavori, dovrebbe avere ormai superato il miliardo di euro. Con una virata decisa verso il mondo del pallone, dove i controlli restano sporadici e più facilmente eludibili. E dove la domanda, dato il numero di praticanti, è inevitabilmente più alta e variegata: i sequestri di eritropoietina (la famigerata Epo) e di ormoni della crescita nel 2011 hanno fatto segnare un incremento del 30%, che non può essere certamente attribuito solo all’uso che ne fanno ciclisti e frequentatori di palestre.

Recentemente hanno fatto poi il loro ingresso sul mercato nero altre due molecole, l’Aica-R e il Tb 500. Entrambe hanno effetto benefico sui muscoli degli arti inferiori e sulla loro capacità di recupero, ma sono gettonatissime dagli atleti soprattutto per un altro motivo: non sono ancora state inserite da Ministero della Sanità e CONI nella tabella delle sostanze proibite. E pazienza se i medici mettono in guardia dal loro utilizzo, potenzialmente devastante per chi non ha bisogno di ricorrere a certe cure: la domanda, l’abbiamo già detto, c’è. E cresce.
Dove c’è una domanda, si crea un’offerta: è una legge economica basilare. E se quell’offerta necessita di transitare per canali illegali, peraltro già abbondantemente oliati da traffici precedenti (stupefacenti in primis) non c’è dubbio che a metterci su le mani per prima sarà, anche questa volta, la criminalità organizzata.

Le sostanze dopanti partono dalle linee produttive delle multinazionali farmaceutiche oppure da grandi laboratori abusivi piazzati in Europa dell’Est, dove le mafie slave sono state abilissime a ereditare le competenze mediche, chimiche e farmacologiche dell’ex impero sovietico (ricordate le medaglie olimpiche a ripetizione di Bulgaria, URSS, Romania e Germania Est?), trasformandole in una merce di scambio molto appetita dalla malavita nostrana. Da lì arrivano in Italia attraverso i porti di Napoli e Gioia Tauro, i cui traffici sono saldamente in mano ai clan campani e calabresi, per poi perdersi in mille rivoli verso medici e preparatori compiacenti, palestre, società sportive, cliniche private, scantinati. L’alternativa è rappresentata dai furti presso ospedali e cliniche, che non a caso vedono in testa a questa particolare classifica le province calabresi oltre a quelle di Napoli e Salerno.
Gli acquisti? Vengono effettuati tramite piazzisti e farmacisti senza scrupoli, oppure direttamente su Internet, come ha dimostrato la nostra “prova sul campo” di oggi. Ma sempre più spesso avvengono anche attraverso i mille frequentatori e intermediari del sottobosco sportivo, dove mafia, camorra, ’ndrangheta e Sacra Corona Unita dispongono di addentellati utili ad avvicinare i campioni del presente e del futuro.
Le procure di tutta Italia indagano, scoprono, sequestrano. Ma il doping è un velocista e stargli dietro non è facile. In Italia, l’utilizzo di sostanze chimiche o di pratiche mediche per migliorare le prestazioni agonistiche è diventato un illecito penale solo alla fine del 2000. In Europa, invece, lo era già dal 1989, quando a Strasburgo fu firmata la convenzione contro il doping.

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