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Ada Masella per Panorama
Lifestyle

Spoleto: chi è il custode dell’arte dimenticata

Per dieci anni Luigi Fortunati ha salvato dall’oblio un grande patrimonio culturale. Ora va in pensione. Ma il suo lavoro non sarà sprecato

Luigi Fortunati, 65 anni, da dieci custode del deposito che raccoglie opere d’arte di proprietà del Comune di Spoleto: alle sue spalle un affresco staccato,
con un «funerale della Vergine» proveniente dal chiostro di San Nicolò.

Sa che lei meriterebbe una laurea ad honorem in storia dell’arte?
«Ho soltanto la terza media...».
Ma ha trasformato un deposito in un museo.

«Non esageriamo. Ho fatto solo ciò che mi è sembrato giusto». A schermirsi è Luigi Fortunati. Panorama è con lui a Spoleto, nella zona industriale, località Santo Chiodo. Tra i tanti capannoni, qui, ce n’è uno che è di proprietà del Comune e che trabocca di capolavori. Ci sono dentro i Burri, i Calder, i Leoncillo, i Consagra, i Guttuso. E ci sono i reperti antichi, i gessi e i capitelli, gli affreschi staccati e le tele del Cinquecento. Il capannone è chiuso al pubblico, è uno scrigno segreto, è il frutto di un’accumulazione che si è protratta negli anni. È l’asilo, insomma, delle opere dimenticate.

* Leggi anche: Spoleto ritrova l’arte dimenticata *

Ma qualcuno che si prenda cura di quelle opere c’è. È Luigi Fortunati, appunto. Ha 65 anni, una carriera da operaio alle spalle, e due occhi ballerini che ora si muovono tristi fra i dipinti.

«Mi domando che fine faranno tutte queste tele, adesso» dice. Il 30 settembre, infatti, Fortunati, che da un decennio è il custode del deposito, andrà in pensione. E dovrà dire addio all’immenso lavoro che ha fatto per salvare dall’oblio questo pezzo importante del nostro patrimonio artistico.
Occhi buoni e barba bianca, questo signore sembra un personaggio di Jorge Luis Borges: smarrito e ritrovato in un labirinto di simboli. Fortunati infatti ha soffiato la vita in un luogo morto. Ha scartato le pile di tele che erano accatastate alla rinfusa e ha appeso le opere alle pareti. Ha selezionato e allestito i dipinti, per provenienza e per autore. Ha poi catalogato ogni singolo pezzo contenuto nel deposito e ogni singolo bene artistico presente nella città di Spoleto. Infine, ha creato un sistema informatico in cui sono confluite tutte le schede redatte: un immenso serbatoio d’informazioni, un museo immaginario e reale al tempo stesso, che poterebbe essere messo a disposizione di tutti, studiosi o turisti. Il punto è che nessuno gli aveva chiesto di fare questo immenso lavoro.

Signor Fortunati, come è iniziata questa avventura?
«Prima di venire qui, ho trascorso dieci anni al macello di Spoleto, a scaricare quarti di bue. Poi mi hanno mandato all’ufficio Cultura, sempre come operaio del Comune, ma a spostare le opere per le mostre, e a lavorare agli allestimenti». È nata lì la passione per l’arte? A Luigi brillano gli occhi, e parte il treno dei ricordi. «E stato un periodo fantastico, di grande arricchimento culturale. Le giornate passate con il professor Giovanni Carandente, il grande critico che qui a Spoleto allestì la collezione di palazzo Collicola, sono state fra le più belle della mia vita. Con lui ho conosciuto gli artisti, ho imparato a rispettare l’arte».

Ma com’è arrivato qui al Santo Chiodo?
«Ho avuto un problema di salute. C’è mancato poco che finissi al creatore. Mi hanno ricoverato d’urgenza per un infarto e mi hanno dimesso con cinque by-pass». Quindi addio lavori di fatica, addio mostre, e addio arte... «Dopo l’intervento, i miei capi mi hanno detto “Caro Luigi, basta sforzi. Te ne vai giù al deposito, e te ne stai tranquillo”». Insomma, le offrivano un nuovo posto di lavoro. «Mi davano un nuovo posto, sì, ma senza lavoro, perché al deposito non c’era da fare niente. Sarei dovuto venire qui ogni giorno a girarmi i pollici, a prendere comunque lo stipendio, e ad aspettare la pensione. Stavo andando in depressione. Così ho deciso di reagire. E il lavoro me lo sono inventato».

Il risultato è ammirevole. Fortunati mostra come ha ripartito nello spazio i legni antichi, le sculture, i dipinti del 400 e 500. Indugia per un momento di fronte a un’opera che «proviene dal chiostro di san Nicolò e che riprende il motivo della “Dormitio Virginis”, il funerale della Madonna: un riferimento iconografico che ricorre negli affreschi di Filippo Lippi in duomo» spiega.

Poi mostra i muri dedicati all’arte contemporanea, con oltre 250 opere ordinante per temi, autori e provenienze. «Ecco Marina d’inverno di Giuseppe De Gregorio, ecco un Paesaggio di Filippo Marignoli, e poi le opere di Pietro Raspi e Giannetto Orsini» artisti che insieme con Bruno Toscano e Ugo Rambaldi formavano il Gruppo dei Sei, la compagine di pittori che negli anni Cinquanta ha dato lustro alla città di Spoleto, e all’Umbria tutta, con una delle più significative esperienze della pittura informale italiana. Un’intera parete restituisce dignità a questi capolavori che un tempo erano nella galleria d’arte moderna.

Tra nomi più e meno noti, relegati nel deposito, ci sono poi le tele di Vasco Bendini, Eugenio Carmi, Domenico Gnoli, Arnaldo Pomodoro. Ci sono le sei litografie che Alberto Burri aveva realizzato per i Mondiali di Italia 90. E di Burri ci sono altre due opere, piccole e poetiche, che si contendono lo spazio con le testimonianze di Henry Moore, Mario Ceroli, Luigi Boille, Anthony Caro. «Ecco ancora Antonietta Raphael, Renzo Vespignani, Fausto Melotti, e poi Guidi, Treccani, Pizzinato».

L’elenco dei contemporanei sarebbe lunghissimo. «Molte tele sono frutto di donazioni, alcune provengono dalla collezione di Carandente; altre sono giunte dalle diverse edizioni del Premio Spoleto»: un appuntamento, quello del premio, che grazie a critici come Francesco Arcangeli, negli anni Cinquanta, aveva fatto della città un punto di riferimento soprattutto per l’arte informale. «Come si fa a dimenticarsi di tutto questo? È un pezzo di storia dell’arte e anche di memoria di Spoleto» commenta Fortunati. «Ho catalogato circa duemila opere, fra quelle nei depositi, provenienti soprattutto da collezioni smembrate, e quelle sparse nei palazzi in città. Ogni scheda che ho prodotto è adesso in un sistema informatico, consultabile da chiunque accenda questo computer» continua. «Qui un pc non c’era nemmeno» spiega. «Ne ho usato uno assemblato con pezzi riciclati, grazie a mia moglie che lavorava in un centro di smaltimento per computer da rottamare. Adesso, volendo, tutte le schede che ho inserito potrebbero essere messe online».

Dove ha trovato le informazioni? «Ho preso libri in biblioteca, mi sono documentato su internet. Non sono un esperto. Ho solo trascritto informazioni già esistenti. E ho ricostruito la storia di ogni opera». Dal Comune è arrivato qualche riconoscimento? «Non so nemmeno quanti sappiano del lavoro che ho fatto. So di avere la stima di Lamberto Gentili, grande storico dell’arte, che è stato responsabile dei musei di Spoleto. È lui che mi ha incoraggiato e mi ha dato informazioni su come procedere nelle ricerche. E poi il mio lavoro è stato apprezzato dall’assessore alla Cultura, Gianni Quaranta». Adesso che cosa succederà? «Mi sono offerto come volontario, per tenere aperto il deposito a chi volesse visitarlo su appuntamento». Che cosa le hanno risposto dal Comune? «Ancora nulla».

La risposta però arriva a Panorama: «Per ragioni burocratiche, non è possibile inquadrare Fortunati come volontario, ma sono già partiti i colloqui per individuare un suo successore» dicono dall’assessorato alla Cultura. Non solo: «Si stanno valu- tando progetti per valorizzare il patrimonio da lui catalogato». Un nuovo destino per quelle opere si annuncia, dunque. Per Luigi, forse, sarà molto meglio di una laurea ad honorem.

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Antonio Carnevale