La storia di Spozhmai, la baby-kamikaze che si è ribellata al suo destino
 REZA SHIRMOHAMMADI/AFP/Getty Images
News

La storia di Spozhmai, la baby-kamikaze che si è ribellata al suo destino

E' scappata dalla famiglia che voleva costringerla a farsi saltare in aria, e chiede di avere la possibilità di costruirsi un destino diverso

Spozhmai, nove anni, qualche giorno fa è stata arrestata dai soldati delle forze afghane nella provincia meridionale di Helmand in quanto sospettata di essere stata assoldata come bimba-kamikaze per farsi esplodere contro un convoglio delle guardie di frontiera.

La storia di Spozhmai ha fatto subito il giro del mondo, dove questa bambina è stata compianta in quanto ennesima vittima della povertà estrema, della mancanza di istruzione e dello sfruttamento di una guerra che, purtroppo, non accenna a finire.

Come tutte le storie dei baby-kamikaze, anche questa non è molto chiara. E non solo perché resta difficile immaginare che bimbi così piccoli possano sposare la causa talebana e rendersi conto di cosa significhi morire da kamikaze. Ma anche perché è parso strano che chi ha assoldato questa ragazzina sia poi stato così ingenuo da lasciarla avvicinare al suo obiettivo infagottata da un visibilissimo giubbotto gonfio di esplosivo, facendola così catturare dalla polizia. Ancora più strano il fatto che, in un primo momento, i talebani non abbiano reagito, nemmeno per sottolineare di non aver mai utilizzato minorenni nelle loro operazioni "di sicurezza".

Come se non bastasse, inizialmente le autorità avevano riferito che al momento dell'arresto Spozhmai era visibilmente sotto shock, e che l'unico dettaglio che ha condiviso con le forze dell'ordine nel corso dell'interrogatorio cui è stata successivamente sottoposta è stato il nome del fratello, Zahir, presentato come "noto" comandante talebano nonché responsabile della sua missione. 

A pochi giorni di distanza da questo singolare arresto, però, restano moltissimi dettagli poco chiari. Ad esempio, una seconda ricostruzione spiega che quando Spozhmai è stata fermata, non indossava più il suo giubbotto di esplosivo, che era infatti stato portato via da "qualcuno". Oggi le vicissitudini di questa ragazzina sono tornate sulle prime pagine di molti quotidiani, che hanno riportato la sua versione dei fatti, quella che la ragazza ha avuto il coraggio di raccontare alla BBC .

"Una sera, sul tardi, nel momento della preghiera, mio fratello mi ha presa da parte e mi ha detto di indossare la giacca con gli esplosivi. Gli ho detto che non potevo farlo. Cosa sarebbe successo se non avesse funzionato? Mi ha detto che, da questo punto di vista, potevo stare tranquilla. Non sapevo che fare. Temevo che restituendogli il giubbotto mi avrebbe picchiata. Ho avuto paura, così gli ho permesso di accompagnarmi nel punto in cui avrei dovuto farmi esplodere. Ho capito subito cosa avevo indosso. Una giacca esplosiva è molto più pesante di una normale. Mentre mi spiegava i dettagli del suo piano, mio fratello mi ha portata nei pressi del checkpoint individuato per l'attentato, e mi detto che sarebbero morti gli altri, non io. Sapevo che stava mentendo. Siamo poi tornati a casa".

A questo punto il racconto si fa più confuso. Spozhmai spiega che "quando il fratello l'ha lasciata" (dove non si sa, ma è plausibile immaginare che il ragazzo abbia rinunciato temendo il crollo psicologico della sorella minore) lei ha dormito nel deserto, dove sarebbe stata avvicinata da un uomo del checkpoint che l'avrebbe esortata a raccontare la sua storia ai suoi superiori. "Sono stati loro a trovare me, non io loro. Ho ceduto, ho raccontato la mia storia, e mi hanno detto di tornare a casa. Mi sono rifiutata, mi avrebbero picchiata". Alla luce delle resistenze della ragazza le autorità si sono offerte di proteggerla. Ma anche a queste condizioni Spozhmai non è voluta tornate indietro. "Me lo hanno già detto: se non lo farai questa volta lo farai la prossima. Mio padre mi ha raggiunta e mi ha chiesto di tornare a casa. Gli ho risposto che piuttosto mi sarei uccisa. Non ho una madre, e la mia matrigna non mi ha mai trattato bene. Mi sono sempre occupata io della casa, e non sono mai stati soddisfatti di me, anche se mi hanno trasformata in una schiava. Non mi hanno mai permesso di andare a scuola e non so leggere. Mio fratello mi diceva sempre: sei in questo mondo per morire, è questo il tuo dovere! Mio padre è sempre stato al corrente di tutto".

Spozhmai ha sette sorelle e cinque fratelli. Lei è scappata, chi prenderà il suo posto? E soprattutto, chi si occuperà di tutte queste vittime innocenti dell’Afghanistan? Quando e a quali condizioni sarà possibile offrire loro un futuro migliore? Questa bambina ieri si è rivolta al presidente Karzai, chiedendogli di "mandarla in un luogo sicuro", affinché possa liberarsi definitivamente dal suo destino di baby-kamikaze. Cosa succederà a Spozhmai non lo sappiamo, ma nel futuro di tante sue coetanee afghane, purtroppo, la pace non c'é.

 

 

I più letti

avatar-icon

Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

Read More