"Siamo cresciuti senza padre. E ora ci dicano la verità"
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"Siamo cresciuti senza padre. E ora ci dicano la verità"

A vent'anni dalle stragi di Capaci e via D'Amelio, parlano i figli degli agenti delle scorte di Falcone e Borsellino

Dai loro padri hanno ereditato pochi e preziosi ricordi, l’orgoglio siciliano, le sfumature dei capelli, il timbro pacato della voce. Disertano le cerimonie ufficiali, non amano le interviste, non fanno parte di associazioni e molti di loro hanno provato ad andarsene, da questa terra che profuma di limoni ma che è intrisa di sangue. Alla fine, però, sono sempre tornati.

Manù è un allievo della Guardia di Finanza, Gaetano un ventenne ribelle con la smania di girare il mondo, Rosalinda una splendida donna di 33 anni con la passione per la pittura. E poi ci sono gli altri: all’epoca solo bambini, oggi giovani donne e uomini che – malgrado tutto – non hanno mai smesso di credere nello Stato. Sono i figli dei poliziotti delle scorte dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino rimasti uccisi, 20 anni fa esatti, nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Eroi silenziosi, sempre un passo indietro, che si sono lasciati alle spalle famiglie straziate dal dolore e figli che non hanno mai visto crescere e per cui ora, quegli stessi familiari, anche alla luce delle nuove indagini sulla presunta trattativa mafia-Stato, tornano a chiedere verità e giustizia.

Aveva appena quattro mesi, ed era fra le braccia della nonna, allora, Emanuele Schifano, detto Manù, mentre sua madre Rosaria Costa diventava in diretta tv icona del dolore, pronunciando ai funerali di Stato del marito un’invettiva nei confronti degli “uomini della mafia”. Dalla mamma, vedova di appena 22 anni, Manù ha ereditato il carattere energico, e la sete di giustizia. Dal padre, che quella tragica mattina di maggio viaggiava a bordo della prima auto che faceva “scudo” a quella del giudice Falcone, il sorriso e quel senso del dovere che lo ha spinto – proprio come il suo papà – a vestire la divisa e a non smettere mai di credere che le cose, combattendo dalla parte dello Stato, possono davvero cambiare.

Ha viaggiato il mondo in ogni sua latitudine, fermandosi a lungo in Giappone, e giurando di non rimettere mai più piede in Sicilia, invece, Gaetano Montinaro, figlio di Antonio, il più fedele fra gli agenti di Falcone. Aveva quattro anni quando suo padre fu dilaniato in quell’inferno di sangue e cemento il 23 maggio del ’92, all’altezza dello svincolo per Capaci. Per mesi ha smesso di parlare. E, adolescente, ha lasciato Palermo. Poi però è tornato in Sicilia. E ora, mentre la rabbia e l’irrequietezza dei vent’anni bruciano nei suoi occhi nocciola– identici a quelli del papà – tuona: “Non c’è ancora una verità. Ma io continuo a credere nella giustizia, nell’uguaglianza, nella libertà”.

La domenica pomeriggio del 19 luglio 1992, un giorno in cui l’afa a Palermo era talmente pesante che neanche la brezza del mare riusciva a lenirla, è rimasta cristallizzata nella memoria di Rosalinda Catalano, che allora aveva 12 anni. Rosalinda e i suoi due fratelli, Emilia ed Emanuele, avevano perso alcuni anni prima la mamma, uccisa da un tumore. Non potevano immaginare che il destino avrebbe strappato loro anche il padre, Agostino Catalano, caposcorta di Borsellino, che solo pochi giorni prima – forse un tragico presagio – aveva strappato dalla morte un bambino, salvandolo dall’annegamento sulla spiaggia di Mondello. Rosalinda non ha mai abbandonato la sua Palermo. E da quando aveva 19 anni lavora come impiegata in Regione, un’occupazione che – come da normativa – le è stata assegnata in quanto familiare di una vittima di mafia. “Ho sempre dato il meglio in questi vent’anni, e l’ho fatto per mio padre - racconta con voce bassa ma ferma - Sono ancora piena di rabbia ma, malgrado tutto, credo ancora nello Stato. E spero che finalmente sia ristabilita la verità storica di quegli anni”.

Vive in Brasile, invece, lontano dalla Sicilia e dalla parola mafia, Dario, figlio dell’agente Claudio Traina, che il giorno in cui suo padre è rimasto ucciso in via D’Amelio aveva solo undici mesi. Oggi – dice chi lo conosce – è lo specchio del papà. A riportare in vita la memora di Claudio ci pensa allora suo fratello Luciano, ex agente della Squadra Mobile di Palermo, che dopo la strage fece parte del pool di poliziotti che catturarono il boss Giovanni Brusca, e che proprio per questo scivolò - suo malgrado - un un’intricata vicenda lavorativa. “Io sono convinto che queste nuove indagini possano fare luce su cosa realmente è successo in quegli anni a Palermo, e consegnare alla giustizia i veri mandanti”. “Allora chi poteva parlare non ha parlato – prosegue – ma oggi i tempi, forse, sono davvero maturi. E chi ha coscienza pesante troverà il modo di liberarsela”.

Non aveva ancora figli, ma sperava presto di sposarsi, Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto e morire in una strage di mafia. Bionda e bellissima, sognava di tornare presto nella sua Cagliari, e aveva compilato decine di richieste di trasferimento. Tutte rimaste inascoltate. Oggi, per lei, parla la sorella Claudia: “Emanuela amava tanto il suo lavoro, pur essendo al corrente del pericolo che correva ogni giorno. Ma cercava sempre di non farci preoccupare. Ora, a vent'anni da quel massacro, tutti noi ci aggrappiano alla speranza che finalmente la verità venga alla luce. E per noi, se davvero la teoria sulla trattativa fra mafia e Stato dovesse risultare esatta, questo sarebbe un dolore ancora più grande".

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Arianna Giunti