Se Trump manda in soffitta gli accordi di Oslo
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Se Trump manda in soffitta gli accordi di Oslo

Che cosa si nasconde davvero dietro l'apertura effettuata dal neopresidente nei confronti di una One-State solution per il conflitto israelo-palestinese

Jared Kushner, il giovane marito di Ivanka Trump al quale il neopresidente ha affidato la regia del rilancio dei colloqui di pace israelo-palestinesi, è un vecchio amico di famiglia di Bibi Netanyahu, il primo ministro israeliano che ieri, nel corso della amichevole conferenza stampa congiunta alla Casa Bianca, ha omaggiato Trump con parole che mai avrebbe utilizzato per il suo predecessore Barack Obama

«Non c'è più grande sostenitore del popolo ebraico e dello stato ebraico del presidente Donald».  

Kushner, un ebreo ultraortodosso promosso a Senior Advisor per il Medioriente da Trump, aveva diciassette anni quando, nel 1998, Netanyahu - che anche allora ricopriva la carica di primo ministro - accompagnò lui e centinaia di teenager americani di origine ebraica, tutti rigorosamente avvolti nelle bandiere di Israele, tra le rovine dei lager di Auschwitz-Birkenau.

Il padre di Kushner, un immobiliarista ebreo-americano e grande finanziatore della causa israeliana, era amico intimo di Netanyahu.  Lo ospitò anche nella sua villa in New Jersey, facendolo  dormire nel letto del giovane Jared che quella notte si trasferì, in onore del prestigioso ospite, al piano di sotto.

Netanyahu  non avrebbe certamente potuto immaginare che, venti anni dopo, quel teenager che qualche anno dopo si maritò con la figlia del futuro presidente  sarebbe diventato il più potente consigliere statunitense in Medioriente, l'uomo al quale Trump ha assegnato il compito - da far tremare i polsi - di  rilanciare il processo di pace tra israeliani e palestinesi. 

«Posso rivelare da quanto tempo ci conosciamo?» ha chiesto con tono affettuoso Netanyahu a un annuente Jared nel corso della conferenza stampa congiunta. 

Questo, a grandi linee, è il contesto (relazionale, politico e familiare) in cui inquadrare la clamorosa apertura che Trump, alla Casa Bianca, ha fatto nei confronti di una «one State solution» per il conflitto israelo-palestinese. Un'apertura che  - qualora fosse realmente attuata - denoterebbe un radicale cambiamento di rotta rispetto a quel «due popoli, due Stati» che, dal 1995, è stato il mantra  della diplomazia europea e americana in Medioriente, il punto fermo di qualsivoglia nuova trattativa con l'Autorità Nazionale Palestinese, il principio al quale si sono ispirati per vent'anni - anche nella costruzione delle relazioni pericolose con gli altri soggetti e player statuali o extrastatuali sul terreno - tutti gli agenti americani sul campo in Medioriente, i vertici del Pentagono e  della Cia, le ambasciate statunitensi.

DIPLOMAZIA DEGLI AFFARI
È chiaro. Trump ha usato anche in questo caso il
linguaggio del businessman pragmatico, e privo di paraocchi ideologici, abituato alle trattative per acquisizioni o vendite di grandi multinazionali. Si è presentato anche questa volta come un uomo del fare, poco affezionato alle formule, alle parole.

«Pensavo anche io qualche anno fa che una soluzione a due Stati fosse il modo più semplice per rilanciare il processo di pace. Ma onestamente se Netanyahu e i palestinesi si mettono d'accordo per un'altra ipotesi, io sono contento per loro. Io sono per la soluzione che piaccia a entrambe le parti. One State o two-State, per me è la stessa cosa».

È questo che, agli elettori americani, è sempre piaciuto di Trump: il suo dire cose di apparente buonsenso, pratiche, che però - secondo i suoi (sempre più numerosi) avversari - non tengono pienamente conto delle implicazioni di media e lunga delle sue parole. Specie in un'area, come il Medioriente, dove niente è mai come appare.

Intendiamoci: una ipotetica One-State Solution non è in astratto una bestemmia, né un'assurdità.

Rischia di diventarlo però se è solo uno spot, una battuta a margine non adeguatamente preparata con i diplomatici, con il Pentagono, con la Cia, con i palestinesi, con i capi dell'area, se, in sostanza, il rilancio di un negoziato politicamente così delicato e, carico di implicazioni, viene affrontato come se parlassimo di una trattativa commerciale, all'insegna di quella «diplomazia degli affari» che è sempre apparsa - a cominciare dalle nomine nei posti chiave assegnati nel suo governo - come il vero, grande punto interrogativo della nuova fase di politica estera che intende inaugurare il neopresidente.

PUNTI DEBOLI DELL'ONE STATE SOLUTION
Ma quali sono i punti deboli di questa ipotetica svolta a U della politica americana in Medioriente?

Il primo punto debole riguarda l'Anp di Mahmoud Abbas, che - come prevedibile - ha già manifestato la sua contrarietà a seppellire Oslo. Quando si dice Anp, s'intendono - è chiaro - anche gli Stati arabi che lo sostengono, dal Qatar all'Egitto, fino all'Arabia saudita e all'Iran.

Il secondo punto debole riguarda le dinamiche demografiche in atto in Israele e nei Territori occupati.

Benché l'ufficio di statistica demografica israeliana sia sempre stato restio a rendere pubblici e trasparenti i dati sulle trasformazioni nella composizione etnica e religiosa della popolazione residente in Israele, il tumultuoso tasso di riproduzione delle famiglie palestinesi - non solo in Cisgiordania e a Gaza, ma anche all'interno dei confini dello Stato di Israele (quasi quattro figli per donna) - rischia nel medio-lungo periodo di cambiare indefinitamente gli equilibri politici di Israele, facendogli progressivamente perdere - nel giro di qualche decennio -  il  carattere «democratico ed ebraico» dello Stato.

Lo diceva, in un suo celebre discorso, anche Yasser Arafat: «La vera arma dei palestinesi è il ventre delle nostre donne!». 

Basti pensare che, già oggi, il terzo partito della Knesset è il partito degli arabo-israeliani. Certo, a queste dinamiche demografiche endogene, Israele ha sempre risposto - per mantenere l'equilibrio interno - in due modi:

1) Da un lato concedendo con estrema facilità la cittadinanza automatica a centinaia di migliaia di immigrati di origine anche lontanamente ebraica, prima dai Paesi dell'Est e oggi per lo più dagli Stati mediorientali.

2) Dall'altro, favorendo politiche di ripopolamento e di colonizzazione a Gerusalemme est, a Hebron e più in generale nei Territori (da parte di gruppi spesso oltranzisti a alto tasso di riproduzione) che contenesse almeno in parte la crescita demografica dei palestinesi. 

Ma c'è di più. Un ipotetico Stato binazionale confederato - con una parte a prevalenza ebraica all'interno degli attuali confini di Israele e un'altra a prevalenza musulmana nella West Bank e a Gaza - porterebbe con sé di fatto, se il nuovo Stato binazionale volesse continuare a essere democratico, la fine del sionismo, con gli ebrei che diventerebbero quasi una minoranza all'interno del loro Stato. Siamo sicuri che la One-State Solution convenga davvero agli israeliani? E siamo sicuri che,  non porterebbe con sé l'esplosione di un'Intifada su scala ancora più larga? E infine: lo sa il genero di Trump Jarred che il primo a ipotizzarelo scenario One-State fu, negli anni 70, quando finanziava i gruppi terroristici palestinesi, Muhammar Gheddafi che inventò l'espressione Israstina, intesa proprio come Stato unitario binazionale di arabi e ebrei? E lo sa, sempre Jarred, che gli unici che sognano uno Stato unico dal Mare Mediterraneo al fiume Giordano sono gli estremisti di Hamas? Oppure, di converso, gli estremisti di destra israeliani che sognano la deportazione di milioni di palestinesi?

Queste sono le domande che si pongono gli stessi diplomatici americani, formatisi negli anni di Oslo e ancora all'idea Due popoli, due Stati. I quali, però, per ora tacciono. Anche perché hanno visto il modo amichevole con cui Bibi ha trattato The Donald. Avesse, il premier israeliano, pensato che Trump parlava sul serio non avrebbe sorriso, né lo avrebbe tributato dell'appellativo di miglior amico dello Stato di Israele. Lo sa probabilmente anche lui, in fondo, che Trump è Trump. Che una cosa sono le parole in libertà, un'altra sono i fatti. E i fatti suggeriscono a Netanyahu che il suo interlocutore ora - parole a parte - è l'amico Jared Kushner. Un businessman ebreo ortodosso che difficilmente, per il suo profilo, potrebbe convincere i leader palestinesi a sedersi seriamente al tavolo delle trattative.




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Paolo Papi