Russiagate: la pista italiana
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte durante l'incontro a Palazzo Chigi con i sindacati CGIL CISL e UIL sulla prossima legge di Bilancio, Roma, 7 ottobre 2019. ANSA/FILIPPO ATTILI UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI
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Russiagate: la pista italiana

Lo Spygate, il complotto che secondo Trump sarebbe stato ordito ai suoi danni, mette in difficoltà Conte. Non per la vicenda in sé, ma per il comportamento tenuto dal premier

Dopo la nomina del leghista Raffaele Volpi a presidente del Copasir, il mondo politico romano è in trepida attesa che giornali Usa pubblichino sullo scambio di informazioni con i servizi italiani sul presunto complotto ordito contro Donald Trump. O che, come ha detto una fonte di intelligence alla Reuters, il ministro della Giustizia William Barr e il procuratore federale John Durham possano tornare a Roma per «svolgere ulteriori indagini».

Fra minacce reali e complotti ipotetici, l'Italia è come una tappa-chiave della contro-inchiesta voluta da Donald Trump sulle origini del Russiagate, il cosidetto Spygate. Ma è anche, come ha scritto il New York Times, «la centrale dell'intrigo sull'impeachment per i funzionari di Trump». Non a caso, a cavallo fra settembre e ottobre, nel giro di tre giorni a Roma sono arrivati a Roma tre altissimi funzionari statunitensi: il Segretario di Stato Mike Pompeo, il ministro William Barr e il procuratore Durham, incaricato dell'inchiesta sulle origini del Russiagate.

Ma se la visita di Pompeo era in calendario da settimane, quella di Barr e Durham (che era stata preceduta da un incontro analogo a Ferragosto) è stata preparata, secondo il New York Times, «aggirando i protocolli» e senza che diplomatici e funzionari dell'intelligence presso l'ambasciata Usa a Roma fossero a conoscenza delle ragioni del viaggio.
La doppia trasferta romana della coppia Barr-Durham, ha scritto il quotidiano statunitense, aveva l'obiettivo di «incontrare funzionari italiani di intelligence nell'ambito degli sforzi del presidente Trump per screditare l'investigazione sulle ingerenze russe nell'elezione del 2016 negli Stati Uniti». In un successivo articolo, il New York Times ha dettagliato la missione dei due funzionari: «cercare prove che potessero sostenere la tesi a lungo coltivata da Trump: che alcuni dei più stretti alleati dell'America avevano cospirato con i suoi nemici dello “Stato Profondo” per impedirgli di vincere la presidenza».

In Italia, dunque, sarebbero custodite le prove del presunto complotto anti-Trump (vedi https://www.panorama.it/news/esteri/caso-italia-russiagate-servizi-segreti-quello-bisogna-sapere/) Massimo depositario di tali prove sarebbe l'enigmatico Joseph Mifsud, il professore maltese che aveva stretti rapporti di collaborazione con la Link University di Roma, di cui si sono perse le tracce da oltre un anno: l'ultimo avvistamento (fotografico) risale al 21 maggio 2018.

Nel «Rapporto sull'investigazione nell'interferenza russa nell'elezione presidenziale del 2016», curato da Robert Mueller per conto del Dipartimento di giustizia, Mifsud è citato 90 volte. Ma la citazione-chiave si trova a pagina 5, dove si parla anche di un altro personaggio chiave: George Papadopoulos, un consulente politico greco che in quel momento è membro del comitato consultivo per la politica estera nella campagna di Trump durante le presidenziali del 2016 (e che successivamente accuserà Matteo Renzi di una collusione con l'amministrazione Obama). Citando un viaggio fatto dal professore maltese a Mosca nell'aprile del 2016, il rapporto riferisce che al rientro «Mifsud disse a Papadopoulos che il governo russo aveva “materiale scottante” su Hillary Clinton sottoforma di migliaia di email». Questa citazione rende Mitfud la fonte principale di una delle principali accuse mosse contro la campagna di Trump dall'inchiesta di Mueller.

In un incontro con l'ambasciatore australiano a Londra Alexander Downer, il 6 maggio, Papadopoulos gli riferisce che i russi potrebbero aiutare la campagna elettorale di Trump rilasciando informazioni che danneggerebbero la Clinton. Quando a fine luglio Wikileaks pubblica le mail della Clinton, l'ambasciatore comunica all'Fbi ciò che Papadopoulos gli aveva riferito un mese e mezzo prima. Sulla base di questa informazione, il Federal Bureau of Investigation apre l'inchiesta che mette Trump nei guai fino al collo. Questa la versione dei fatti, sintetizzata in un documento di 448 pagine, così come è stata appurata da Mueller, che ha indagato dal maggio 2017 al marzo 2019,  portando alla incriminazione di 34 persone e tre società, alla condanna di otto persone, fra cui lo stesso Papadopoulos, finito in carcere per aver mentito all'Fbi.   

Di tutt'altro tenore la versione dei fatti sostenuta da Donald Trump, nota come Spygate. Anzitutto, la tesi: secondo il presidente Usa, non sarebbe stata l'intelligence russa a penetrare nei server del partito democratico per rubare le mail della Clinton e diffonderle su Internet. A commettere l'infrazione sarebbe stato lo stesso partito democratico, che temendo la vittoria di Trump avrebbe messo in atto una strategia preventiva. In sostanza, i democratici avrebbero volutamente diffuso le mail della Clinton per potere, in caso di vittoria di Trump, accusarlo di essere il responsabile della violazione dei propri server, in combutta con i servizi russi, e aprire una procedura di impeachment.

Una tesi macchinosa, di cui però mancano le prove. E sono proprio le prove di questo presunto complotto che il ministro della Giustizia Barr è venuto (e, forse, tornerà) a cercare in Italia. In realtà Trump sostiene che esistono, che si troverebbero su un server del partito democratico, che però sarebbe stato messo al sicuro in Ucraina, dagli odiatissimi nemici di Mosca. Ma se le cose stanno davvero così, perché l'Fbi non ha indagato? Non lo ha fatto perché, prosegue l'ardita tesi di Trump, sarebbe colluso con il partito democratico. Il Federal Bureau of Investigation farebbe parte integrante dello Stato profondo, cioè quella struttura nascosta costituita dall'establishment tecnocratico che si oppone a Trump ed è in combutta con i democratici.

Complotto vero o ipotetico, quello che è certo è che lo Spygate mette in difficoltà Giuseppe Conte. Non per la vicenda in sé, ma il comportamento tenuto nei confronti degli altissimi funzionari sguinzagliati da Trump alla ricerca di prove sul presunto complotto ordito ai suoi danni. Il primo ministro deve spiegare «l'irritualità» degli incontri avvenuti durante la doppia trasferta romana del ministro Barr e del procuratore Durham, il 15 agosto e il 27 settembre. Come ammesso dallo stesso Conte, fu lui ad autorizzare i meeting con il capo del Dis Gennaro Vecchione per cercare «nell' interesse dell' Italia di chiarire quali fossero le informazioni degli Stati Uniti sull' operato dei nostri Servizi all' epoca dei governi precedenti», vale a dire Renzi e Gentiloni.

Al momento non si conosce il genere di informazioni che Gennaro Vecchione chiese di raccogliere alle nostre due agenzie di spionaggio e controspionaggio (Aise e Aisi) affinché poi venissero condivise con Barr e Durham. Il sospetto più accreditato, però, è che possano riguardare la primula rossa Mifsud. Che fino al maggio 2018 viveva nascosto in un appartamento intestato a una società collegata con la Link Campus university, fondata dall'ex ministro democristiano Vincenzo Scotti.

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