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Il ruolo dell'Italia nella grande guerra mediorientale

La difesa rinnova l’impegno a sostegno delle forze armate libanesi e invia soldati anche contro lo Stato Islamico. Ma scarta la polveriera libica

Impegnata a monitorare gli air strikes degli Stati Uniti e a raccontare le battaglie in corso a Kobane e alle porte di Baghdad, la stampa internazionale ha relegato in un cono d’ombra mediatico altri focolai d’instabilità paralleli, di certo non meno importanti per il futuro assetto del Medio Oriente.

Il Libano è uno di questi. Negli ultimi mesi, il Paese dei Cedri ha subito di riflesso le conseguenze dell’avanzata dello Stato Islamico tra l’Iraq e la Siria. I confini con la Siria, martoriati da quando le milizie sciite di Hezbollah hanno iniziato a inviare combattenti a sostegno del presidente Bashar Assad, sono infatti tornati a essere una polveriera.

Perché spostare uomini e mezzi in Libano e Iraq, piuttosto che in aree di crisi molto più vicine ai nostri territori e ai nostri interessi economici. Perché, ad esempio, abbandonare la Libia, perdendo una grande opportunità energetica e lasciando di fatto irrisolto il problema dei flussi migratori?

Il ruolo dell’Italia in Medio Oriente
Il 15 ottobre Saad Hariri, ex premier del Libano e leader dell’influente Movimento al Mustaqbal (la prima forza sunnita del Paese), è stato a Roma dove ha incontrato i ministri degli Esteri e della Difesa Federica Mogherini e Roberta Pinotti. Secondo diversi giornali libanesi, al termine del confronto Hariri avrebbe ottenuto dall’Italia rassicurazioni sulla presenza dei contingenti dell’esercito italiano in territorio libanese.

Attualmente sono 1.100 i militari italiani impegnati nella missione UNIFIL. Dal 13 ottobre il comando delle operazioni del Sector West della missione è passato alla Brigata “Pinerolo” agli ordini del generale Stefano Del Col.

La nuova missione si chiamerà Joint Task Force Lebanon e vi prenderanno parte anche Slovenia, Brunei, Finlandia, Malesia, Corea del Sud, Ghana, Irlanda, Tanzania. Il ministero della Difesa ha comunicato che questa missione è stata rinforzata da altri assetti provenienti da tutta Italia. Il suo obiettivo è monitorare la cessazione delle ostilità tra Libano e Israele, supportare le forze armate libanesi dispiegate nel sud del Paese e offrire assistenza alla popolazione civile.

Questo contingente non è l’unico a presidiare il fronte mediorientale. Ieri il ministro della Difesa Pinotti ha infatti informato che l’Italia invierà a sostegno della coalizione internazionale impegnata in Iraq un aereo Kc-767 per il rifornimento in volo, due velivoli senza pilota Predator. Nel “pacchetto” rientrano anche 280 militari. Alcuni verranno inviati a Erbil, dove addestreranno le forze curde peshmerga. Altri collaboreranno con i vertici delle forze irachene.

La situazione in Libano
L’ultimo assaggio delle tensioni registrate in Libano arriva dalla regione di Al Masnaa, dove nei villaggi di Brital, Younine e Nahleh nell’ultima settimana si sono intensificati gli scontri tra i qaedisti di Jabhat Al Nusra, alleati dell’esercito del Califfo Al Baghdadi, ed Hezbollah. Per le milizie sunnite concentrate in questa zona, guidate dall’Emiro del Fronte Nusra Abu Malik Talli, ottenere il controllo della regione significherebbe avvicinarsi alla Valle della Beqaa, area di fatto fuori il controllo delle forze armate libanesi.

Scenari simili potrebbero concretizzarsi anche nella regione di Al Arqoub, lungo le alture del Golan. Qui si concentra un mix potenzialmente esplosivo, con varie etnie (la abitano in maggioranza sunniti, ma anche sciiti, cristiani e drusi) costrette a convivere con le migliaia di profughi siriani arrivati con lo scoppio della guerra in Siria. Monitorare una situazione del genere per l’esercito libanese non è affatto semplice, e il rischio di infiltrazioni jihadiste tra i rifugiati non è da escludere.

Diversi fattori lasciano pensare che il Libano presto potrebbe prepararsi a rivivere la mattanza di Arsal, cittadina al confine con la Siria, teatro di scontri tra gruppi jihadisti sunniti e l’esercito libanese all’inizio dell’agosto scorso. All’epoca, il bilancio fu di circa 20 soldati uccisi e 27 ostaggi libanesi catturati dai miliziani di Jabhat Al Nusra, che in quest’area, così come in buona parte del fronte siriano, collabora ormai stabilmente con lo Stato Islamico. Degli ostaggi, ad oggi non si hanno notizie. È possibile che IS li voglia utilizzare come merce di scambio per ottenere dal governo di Beirut un gruppo di suoi miliziani. Il copione sarebbe lo stesso seguito poco settimane fa dal governo turco per riportare a casa 46 suoi concittadini.

Ciò che è accaduto ad Arsal potrebbe verificarsi anche in altre aree lungo le frontiere con la Siria, come conferma a Lookout News una fonte vicina alle forze di sicurezza di Beirut. “In questo momento - spiega - l’esercito in Libano è l’unica istituzione rispettata in modo traversale dalla popolazione, a prescindere dalle divisioni confessionali. Se però i militari non avranno il semaforo verde dal governo libanese, e alle forze speciali non verrà permesso di entrare in azione, il rischio è di vivere non una ma decine di altre Arsal”.

Soldi sauditi e armi francesi
Il rischio è avvertito non solo dal governo libanese ma anche da altre potenze regionali, con in testa l’Arabia Saudita. Dopo un lungo stallo nelle trattative, ad agosto il governo di Riyadh ha sbloccato un finanziamento da 3 miliardi di dollari per permettere al Libano di acquistare nuove attrezzature belliche dalla Francia. Annunciato nel dicembre del 2013, il piano si era incagliato più volte negli ultimi mesi. Una prima volta a causa di una disputa tra il generale libanese Jean Kawagi e la lobby delle industrie militari francesi. Una seconda volta a seguito di una resa dei conti interna alla famiglia reale saudita. Alla fine la situazione si è però sbrogliata e l’8 ottobre Saad Hariri è volato a Parigi per suggellare l’intesa. L’ordine prevede l’acquisto di motovedette realizzate dalla Constructions Mécaniques de Normandie, di proprietà dell’uomo d’affari libanese Iskandar Safa, veicoli blindati, elicotteri Gazelle dell’Airbus, un sistema di comunicazione TETRA dell’Airbus Group e missili MBDA.

Della partita avrebbero voluto essere anche gli Stati Uniti, che con la società Bell erano intenzionati a piazzare 18 elicotteri Huey II (possibile incasso di 180 milioni di dollari), e la Russia con la società Rosoboronexport. Alla fine però l’hanno spuntata i francesi.  


Perché non la Libia?
L’Italia dunque mette ufficialmente più di un piede nella grande guerra mediorientale. Il suo contributo alla campagna militare contro lo Stato Islamico inizia a farsi sostanzioso. Un impegno che comporta ovviamente anche dei rischi, mettendo ancor di più sotto i riflettori il nostro Paese. Eppure un interrogativo di fondo accompagna questa spedizione: perché spostare uomini e mezzi in Libano e Iraq, piuttosto che in aree di crisi molto più vicine ai nostri territori e ai nostri interessi economici. Perché, ad esempio, abbandonare la Libia, perdendo una grande opportunità energetica e lasciando di fatto irrisolto il problema dei flussi migratori?   




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Rocco Bellantone