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Ma la riforma della giustizia non comincia dalle ferie dei tribunali

Certo, 45 giorni di vacanza estiva sono troppi. Però Matteo Renzi, con la sua ennesima battuta, fa soltanto demagogia. Ecco quel che davvero non va nella nostra giustizia penale. E che cosa si dovrebbe fare

Per carità, l'idea lanciata dal premier Matteo Renzi di ridurre le ferie dei magistrati non è di per sé negativa, anzi. Nell'estate 2014 i tribunali sono restati chiusi (e lo resteranno ancora) per la bellezza di 45 giorni, dal 1° agosto al 15 settembre. Ma Renzi non può cavarsela con l'ennesima battuta demagogica: perché non è con queste bagatelle che si risolve il massacro della giustizia italiana.

Proprio in questi giorni la politica torna a discutere e ad accapigliarsi sulla giustizia, ma lo fa su una serie di parole d'ordine vuote. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando in giugno aveva lanciato un piano di riforma in 12 punti, che purtroppo (anche alla luce delle più dettagliate schede su cui si sta lavorando) continua a sembrare un elenco di sconfortanti ovvietà: ridurre i tempi dei processi, dimezzamento dell'arretrato, informatizzazione del sistema giudiziario... Tutte cose giuste, per carità, delle quali però si ciancia da decenni senza alcuna concretezza. 

Il problema è che la giustizia penale non è né di destra, né di sinistra: al contrario, una giustizia funzionante e celere, ma garantista verso gli autori come verso le vittime dei reati, serve a tutti. Invece i tribunali sono intasati da centinaia di migliaia di processi inutili, perché relativi a reati di poco conto e  spesso inesorabilmente destinati alla prescrizione. Per questo è necessario procedere alla depenalizzazione di una serie di reati minori, quelli meno dannosi per la comunità e più difficilmente perseguibili. Ma di questo non si parla, nei dibattiti politici.

Lo stesso principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale viene spesso usato come alibi per coprire lentezze e mancanze dell’attività giudiziaria: ci sono reati che non vengono quasi più trattati, come le truffe, eppure causano grave danno e allarme sociale. Una soluzione pienamente rispettosa dell’autonomia della magistratura potrebbe essere quella di affidare ai procuratori generali presso ogni Corte d’appello una più puntuale e consapevole funzione d’indirizzo all’inizio di ogni anno. Ma anche il Parlamento potrebbe utilmente indicare priorità e obiettivi annuali dell’attività giudiziaria.

La lentezza dei procedimenti è effettivamente un problema gravissimo, tant’è che l’Italia è da anni stabilmente al primo posto in Europa per numero di condanne subite dalla Corte dei diritti dell’uomo, a Strasburgo. Vanno stabilite regole più puntuali sull’organizzazione degli uffici giudiziari, per arginare il tempo di trattazione dei fascicoli. I presidenti di tribunali e corti d’appello devono essere pienamente responsabilizzati. Deve diventare un dovere prevenire e porre rimedio ai ritardi nel deposito dei provvedimenti da parte dei magistrati, prevedendo che eventuali violazioni possano incidere negativamente sulla loro carriera.

Al centro del processo penale va comunque riportato il dibattimento. Troppe volte la gogna mediatica si impadronisce dei procedimenti, alterandone anticipatamente il corso e distruggendo la vita d’indagati e imputati. Al termine delle indagini preliminari gli atti giudiziari e le intercettazioni, il cui utilizzo avrebbe peraltro limiti puntualmente descritti nei codici, debordano sui mass media senza alcun controllo e senza possibilità di contraddittorio. Sarebbe giusto ipotizzare un temperamento alla totale pubblicità degli atti stabilendo limiti più chiari, responsabilizzando i capi delle procure e prevedendo sanzioni disciplinari.

La custodia cautelare non può essere uno strumento per estorcere confessioni o patteggiamenti di pena e deve tornare nell’alveo delle prescrizioni del codice, che in proposito indica tre limiti ben precisi: il rischio di reiterazione del reato, dell’inquinamento probatorio, della fuga dell’indagato. Bisogna contrastare ogni abuso, stabilendo sanzioni disciplinari anche gravi per magistrati e giudici che dispongano l’arresto preventivo (soprattutto quello in carcere) in assenza di una giustificazione più che concreta. 

L’abuso della custodia cautelare ha come effetto anche il disastroso sovraffollamento delle carceri, dove in questo momento più di 4 detenuti su 10 sono in attesa di giudizio. L’appiattimento dei giudici preliminari sulle richieste presentate dal pubblico ministero è un dato statisticamente rilevante: per questo,un altro strumento capace di attenuare gli eccessi della custodia cautelare in carcere potrebbe venire dalla collegialità del giudice incaricato della sua applicazione.

La responsabilità civile dei magistrati introdotta dal referendum del 1987, che venne approvato dall’80,2% degli elettori e fu poi tradito dal legislatore, deve smettere di essere una formula vuota. Il magistrato che compie errori con dolo andrebbe non soltanto punito, bensì allontanato dall’ordine giudiziario. Ma anche il magistrato il quale avvia azioni giudiziarie che in 9 casi su 10 finiscono in un non luogo a procedere (ce ne sono, ce ne sono...) dovrebbe pagare per la sua inadeguatezza.

Andrebbe rivisto soprattutto il ruolo dei pubblici ministeri, allo scopo di riportarne le funzioni nell’alveo d’indirizzo delle altre grandi democrazie occidentali. Ma questo dovrebbe essere fatto senza togliere alcuno strumento a chi voglia efficacemente aggredire l’ampia area d’illegalità presente nella società italiana. Per questo è necessario passare attraverso una riforma del Consiglio superiore della magistratura che, tenendo fermi i principi contenuti negli articoli 104, 105 e 111 della Costituzione, distingua il trattamento delle carriere e dei procedimenti disciplinari dei pubblici ministeri da quello dei magistrati giudicanti.

Nel Csm va anche drasticamente ridimensionato il ruolo ormai preponderante della correnti organizzate della magistratura: trasformatesi praticamente in partiti, le correnti procedono ormai da anni a una lottizzazione strisciante degli uffici direttivi, con criteri raramente indirizzati all’efficienza. Sul merito quasi sempre prevale lo scambio, e troppo spesso gli stessi procedimenti disciplinari si risolvono in nulla a causa di veti incrociati. Vanno individuati diversi criteri di nomina dei consiglieri: c’è chi ha proposto perfino l’estrazione a sorte dei loro nomi, ma basterebbe rivedere i meccanismi elettorali per accedere al Csm (per esempio: no al voto su liste bloccate).

Per garantire il principio costituzionale della separazione dei poteri, va anche stabilito il rigido divieto di rientrare nei ranghi della magistratura per giudici e pubblici ministeri che si siano candidati a elezioni di ogni tipo. Allo stesso modo,devono anche rientrare nei ranghi della magistratura gli oltre 200 magistrati attualmente fuori ruolo e impiegati presso le amministrazioni dei ministeri.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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